a cura di Ninnj Di Stefano Busà
Paolo Pistoletti è nato nel 1964 e vive ad Umbertide (PG). Terminati gli studi in Giurisprudenza e in teologia, ha continuato ad approfondire i contenuti di alcune correnti spirituali d’occidente e d’oriente, ampliando, allo stesso tempo, la sua ricerca poetica. Ha pubblicato la silloge Legni (Ladolfi Editore, 2014) e il contributo Legni, una lettura devadatta, all’interno del volume Dove sta andando il mio italiano? (Fara Editore, 2014). Collabora con il blog letterario Compitu re vivi. Dal 2010 cura e conduce Arcipelago, il programma radiofonico di letture e poesia di RadioRCC. Sta lavorando, con il musicista-bassista Manuele Cambiotti, al progetto Devadatta, vedo la parola che suona.
ULTIMA VISITA
C’è una poltrona di pelle
che regge appena.
Sarei venuto a dire delle cose,
a trovare un appiglio.
Ma tra noi qui
c’è una stanza
che non ne vuole sapere.
Come niente l’aria
e la luce oramai.
Poi ci si aggrappa.
Come se all’improvviso
volessimo stare
come se finalmente
di colpo si fosse.
LEGNI
Non mi ricordo più quante volte si muore,
quante stagioni di legni
ci pesano sulle mani
prima di rovesciarci il cuore.
All’ospedale di Careggi c’è il bianco
delle mura che in mezzo ci passa
chi non ce la fa più a stare qua.
Quelli che invece tornano
nelle vene hanno sentito
tutto il risucchio che viene dagli aghi
dal tubo della flebo
fino alla luce del neon
dove a un certo punto
uno non è più niente
tutto lì nel mentre,
tanto che a sorpresa
non avendo più materia
si smette di tremare
senza cassa senza risonanza
la mancanza ricompone tutto
porta a zero la distanza.
Da bambini si arriva ogni volta
al momento giusto
come una bolla al centro del lago,
la memoria poi torna dopo
quando un giorno d’estate
il sole spacca le pietre
e allora si esce.
In corsia si dice che un giro
moltiplicato per sempre sia l’eternità.
Firenze, ospedale di Careggi, reparto di rianimazione, aprile 2001.
AMICO
Caro amico mio quando uno come te
si ammala in giorni come questi
di una tacca tutto si abbassa
pure i nostri corpi. E solo adesso
vedo tutto il bianco della mia barba
l’alba che mi cresce fitta pallida sulla faccia.
E allora rimane poco qui quasi niente
del respiro che va sotto va più giù,
mentre fuori si riaprono nicchie lucernari
si riapre la stanza che ora riconsegna reperti
ripone unghie nei cassetti
lettere e capelli nelle scatole
come pelle lasciata indietro nei giorni i guanti spaiati.
E le stagioni tra le persiane passano
tornano ai loro maglioni alle loro scarpe
e nella foto appesa al muro poi
tutto quel ricomporsi di cose.