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17 settembre 2011 6 17 /09 /settembre /2011 09:05

La silloge di poesie di Ninnj Di Stefano Busà: Il sogno e la sua infinitezza, la cui titolazione si configura come una sorta di offerta al lettore, perché partecipi e si faccia compagno di strada dell'intero percorso, si presenta come una densa e sottesa rinascita di proposte, drammaticamente, e gioiosamente, umane nel contesto del riscatto liberatorio, che soltanto l'esercizio della parola, della lingua poetica, in questo caso molto suadente e al contempo diretta, senza sovrastrutture, riesce a realizzare. Non casualmente, la silloge si apre con l'Evento che ha segnato inequivocabilmente la vita e i destini dell'uomo, sì che da quel momento d'avvio il discorso poetico -nella sua sottesa umanità di linguaggio e di proposizioni-  procede e si sviluppa come crinale e sentieri percorsi con una nuova e umanizzata dizione, proprio da non lasciar scorgere una ormai superata distinzione tra sostanza e forma, attraverso la quale l'eloquio stesso va slargandosi: " il mio sogno ha sassi e licheni/ sfrangiati dal troppo rinascere/ fiore e radice. Ora è seccume di ramo." (pag?)

Ciò vuol dire che il doppio tracciato dell'aspettazione e della speranza, alla parvenza così distanti e univoci al contempo tra loro, si apre a prospettive coniugate tra fissità e movimento, un percorso che consente a questa raccolta di esibirsi vincente nei confronti di tanta produzione di oggi: " Rinascere poi è come tentare/ quel poco che non conosciamo, la verità/ è sentiero inesplorato, sasso duro che divide,/ eppure à chiaro il giorno, c'è tanta luce intorno." (pag?)

E' la milizia terrena che combatte la sua impietosa guerra conto la fuga del tempo, nella dimensione di quelle scatole cinesi, che pur nella loro ricorrenza, continuano a configurare la sostanza concreta di quel tempus fugit che non è solo quella pura e semplice riflessione che cronologia e storia ci hanno tramandato, bensì molto di più, nell'azione coinvolgente che riguarda l'intero e integro percorso del nostro diurno tracciato, compreso dall'equazione vita/morte fino all'ultimo grido di difesa." Così la morte, una lingua muta/ che sbianca carne e sangue,/ fin dove scorre il soffio della linfa,/ a sciame cattura il brusìo tenace della vita." (pag?)

In questa silloge risulta essenziale, fondamentale in termini non equivoci, quel moto circolatorio che è forse troppo riduttivo definire -tempo-

Felicità o via di fuga? (la definisce l'autrice), la suggestione di questi versi è tutta in questo dilemma duro e implacabile, che richiede tentativi continui e tenaci uscite di sicurezza, ardue da recuperare e ancora più tenaci da aprire: "Si compie poi la dolcezza che inonda,/ la vanità della parola che non cede/ alla mestizia rassicurante della carne,/ al rosso del sangue e al miele/ fino al colpo finale che toglie e non dà,/ al respiro vicino alla resa breve e convulso/.../  (pag.?)

Il fantasma poetico, sempre così vivo e presente, serve a consentire scadenza d'ordine all'interezza del quadro, altrimenti lacerato e slabbrato: in quest'ultima esigenza, il ricorso ad una lingua poetica semplice e naturale, come sempre si addice alla poesia vera e autentica, è presente, restituisce bagliori e slanci, ombrosità e ritrosie ad una scrittura che con coraggio va ad occupare uno spazio non indifferente nel diorama di oggi, non soltanto per il perenne discorso sull'uomo, ma anche sulla preziosa consuetudine di restituire alla parola poetica la sua più vera, autentica e alta connotazione."La vita che viene, dici, non è scritta/ per darci la facoltà della meraviglia, / la fioritura fuori stagione, l'anelito/ dell'aquila alla rupe" e ancora: "Qualcosa poi resta a segnarci il silenzio,/ un fiore reciso o la sera che ci lascia/ come un pensiero mai nato, (solo sognato)." (pag.?)

 

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