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16 febbraio 2012 4 16 /02 /febbraio /2012 10:30


Lo straordinario viaggio di Ninnj Di Stefano Busà

(a cura di Marco Forti)

 

 

 

Finalmente, nei giorni delle Feste di fine anno ho potuto estrarre dalla pila troppo alta dei libri che mi aspettano, il Suo libro, che ho letto durante alcuni giorni come alternativa e tregua, al troppo doveroso lavoro che stavo ultimando. Il suo lavoro lirico mi ha interessato, incuriosito e affascinato, e ha avuto non pochi miei apprezzamenti per la sua compattezza, la linearità verbale, la liricità continua e continuamente minacciata di riassorbimento, da un suo bisogno ulteriore, che non potendo essere completamente metafisica si dibatte a incidere nel reale, che è tanto suo quanto estraneante fino a mischiare la calce e la pietra di un esito sublimante, tranne poi rivisitarlo col relativo e ulteriore vuoto quotidiano. Pertanto fin dal suo primo testo poetico "Barbaglio", sono stato colpito da una continua peculiarità di luce e di ombre che vi si mischia. di letterarietà di immagini e di parole che vi s'innervano e si fondono, fino a convogliare "l'oro" dei suoi mattini poetici, in un finale "corpo morto" che palpita conclusivamente, per poi annichilirsi in un dolore latente che è del mondo, inteso in senso, universale. Un "corpo morto" per riprendere il suo emblematico titolo che altrove è più lieve e aereo, come ad. es. nell"`ala di un passero" o in "Pianoro" più semplicemente "conturba" il canto della vita; o l'anima poetica che è in "Le brade terre perdute" alterna le sue felici aperture agli "azzurri displuvi" come lei tende a definire le soste di un viaggio ancora da compiere. Un viaggio poetico, naturalmente, che pur ritmato da una parabola di movimenti e da una musicalità sorprendentemente percepibile, del novenario endecasillabico che lì e altrove assume spesso il passo di un doppio settenario nitidamente cromatico; come in "Fioriture di greti", per poi sfumare in un'asprezza di valichi spesso ardui da superare.

 

 

 

 

Un'alternanza di toni sempre alti, più che percepibili nel verso squillante e metaforico che orienta "La rosa", con i suoi lampi e i suoi ardori che, imprevedibilmente si macerano nel disagio esistenziale, contrariamente alle "Creature" del testo successivo, cui "l'ondosa tenerezza" della fine, imporpora di pudore le guance: "Di una loro bellezza si ornano tutte le creature, | Di una sfrontata verginità che le sfiora | come bava d'eliso sulle fronti roride di sole ". Solo pochi esempi, dunque, per confermarle che la sua poesia autonoma e personale, quanto sottile e limpida vive di un suo pensiero lirico metaforico felice, e balugina in proprio, senza peraltro voler regredire in veri e propri simboli o esempi primo novecenteschi. Così non sorprende in lei il ricorso alla grande centralità montaliana, che le permette in piena autonomia di sviluppare la necessaria lucidità di pensiero e di parola, la relativa asciuttezza di flash paesistici o figurali, o il murmure ulteriormente poematico di componimenti di memoria o speculari, resistenti fin nel loro continuo serpeggiamento animistico. Così, vedi, esemplificando "l'ala del cormorano" odi "Il fiore della valle" l'affinità elettiva col nostro grande Montale, ma riassorbita e resa fluida docilmente da un miele materno che nutre le radici mediterranee, muovendosi fino a conoscere "l'orma dell'oblio" e scomparire in fondo a sé; senza lasciare tracce. Un mondo poetico, dunque, molto ben strutturato, che ben conscio letterariamente della lucidità linguistica e metrica che ne ingloba l'impegno e la volontà, non manca poi di registrare la spirale interiore di un esito che ne coinvolge l'anima, fino a un proprio annullamento, a una propria morte naturale, fino a cogliere un gioco ossimorico affacciato a un proprio insuperabile e statuario muro. Vedere in proposito il fascinoso movimento in tante variazioni nelle poesie centrali, forse le più culminanti e intense del libro. In testi importanti, anzi decisivi come i lunghi anni de "Il tempo", la cui "vampa" ridesta "la verginità dei pargoli", o come "il perire lento" ne "L'assenza", un tema appunto che ha attraversato gran parte del libro con la sua antitesi creava di fondo, con i suoi intrecciati motivi di lirismo e realtà narrata ad un tempo, di corpo e anima, dell' io che parla e del continuo dialogato lirico di chi parla con l'altro o gli altri. Una materia in cui il corpo poetico esiste enigmaticamente, proprio' nella simultanea identità e intangibilità della propria parola, nata da una solarità astrattiva altrimenti inesprimibile.

Non sorprende, allora, che la molteplicità delle metafore, la fruibilità degli esiti, s'intersichino fino al limite della favola e della visionarietà, quando non sull'orlo emblematico e montaliano del flash, odi una memoria poematica dell'infanzia, che anch'essa attraversa la prima ampissima sezione di L'arto fantasma non venga infine superata dalle poche poesie conclusive del suo libro in cui senza più emblemi e misteri il sogno s'incarna e si acquieta. Così il titolo del libro al termine della Sua spirale, si troverà a significare solo se stesso, o la voce narrante di Ninnj Di Stefano Busà che crea le ragioni del suo urgente affondo, mentre incide la consapevolezza di un no-limite ovvero il superamento della condizione di naufragio. Forse solo ora fissando eufemisticamente "l'arto fantasmatico" che rievoca l'enigma metafisico dell'esistente percettivo o no, della sua vera essenza lirica, Lei s'interroga sulla materia cantabile, sull'unicità del concetto di essere anima/corpo di un tutto drammaticamente nudo che si trasfigura per sconfiggere la frammentazione, la divisione, il relativismo. Un esito cui solo l'inafferrabile emblematicità degli ormai lontani Mallarmé o Valery, e da noi la lezione di un Montale, opportunamente indicata da Raboni nella sua prefazione, ha potuto offrirle un quadro più generale, un fondo di scena verso cui proiettare la sua pur bene individuata e sentita ricerca, fino a rifonderla in un esito completamente (ri)strutturato e risolto. Mi scuso se ho analizzato anche troppo lungamente l'Arto fantasmatico che intitola il suo libro. Ma mi ha molto interessato la sua straordinaria autonomia frammista alla sua grande originalità, nonché l'identificazione sua propria e la distanza dai corpi poetici altrui. Lei, come ha affermato Raboni è notoriamente se stessa. Mi auguro di poterla incontrare e di conversare con lei di quanto così straordinariamente anima la sua poesia e me la fa leggere e rileggere con sempre rinnovato interesse e ammirazione.

 

 

 

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15 febbraio 2012 3 15 /02 /febbraio /2012 16:40

a cura di Ninnj Di Stefano Busà

 

"E’ il respiro di un’ombra la forma che sento, che vedo/ tra gli occhi passare attraverso i pensieri "/.../

sono parole di Giorgio Bonacini, ma denotano l’eccezionale intuizione e  spessore di un “incipit” espressivo che ne costruisce con chiarezza e illuminante lucidità un progetto ispirativo, sottolineando la levatura linguistica, lo stile saldo e rigoroso, che la dice lunga su un autore di spicco, che ha il vantaggio della peculiarità impalpabile dentro una figuratività di immagini assai avvertita. Giorgio Bonacini sa abbinare una cifra lirica assai variegata e complessa, fatta di sospensioni e di interrogativi irrisolti, ad un’ansia di accostamenti vivaci dentro uno scandaglio d’introspezioni interiori ed esteriori molto ampi.

L’autore scrive la poesia come un atto compiuto dalla mente per esorcizzare il dubbio, l’assenza di pensiero, il caos;  ne derime i fili, ne costruisce i rapporti, le interconnessioni, gli strazi di una trascorrenza precaria e transitoria dell’esistente, lasciandosi guidare dal  “pensiero” <poetante>, che istruisce il suo itinerario umano e intellettuale in una sorta di scrittura “crittografica” al cui interno riesce a captare i sensi, ovvero, quella forma apparentemente interna all’esistente che è anche  -sinolo- della sua  metafora stlistica. Tra allitterazioni, assonanze e consonanze l’autore raggiunge una misura simbolica suggestiva e scorrevole, che non sempre in altri autori è l’esito felice di una scrittura decriptata attraverso sigle e ismi moderni.

Bonacini raggiunge toni alti in cui si snodano spunti di grande effetto, ineccepibili dal punto di vista stilistico. Un repertorio che consente al lettore una vasta gamma di orchestrazioni, a cominciare dal verso, quasi sempre ampio, avvolgente, sinuoso, affascinante e particolarmente dotato di grande spessore linguistico, di una profonda analisi introspettiva, in cui l’autore provvede a dotarsi di uno speciale percussore acustico, per avvertire meglio le vibrazioni che provengono dall’anima. Il pensiero è quasi sempre individuato in un coinvolgimento emotivo che contribuisce ad una stringente indagine di fondo. Dentro ed oltre la Poesia, Bonacini coglie l’occasione di una ricostruzione mnemonica, fatta di suoni e di segnali, di apparenti catarsi e di sorgenti di luce.

La poetica di Giorgio Bonacini tende a decifrare i segnali e gl’interrogativi dell’esistenza per calarsi in una roggia speleologica di grande e arrischiato scoscendimento, un abisso dentro una concatenazione logica che va dall’astratto all’allusione, ed evidenzia il tentativo di farsi carne e sangue rinverdendo una musicalità a volte appena sfiorata, (perché l’autore non è di stampo elegiaco), che sublima le sfumature esistenziali:   

 

“Portare a compimento una scoperta o farne parte 

non è solo il capriccio di un poeta, né un destino che rimanda 

a una parola affaticata - a volte l’invenzione è inopportuna...”

 

Qui, la vulnerabilità dell’io sfiora l’essere in senso totale, rivela un’eleganza preziosa nel cogliere la condizione frustrante dell’umanità.

La conflittualità col reale, la percezione dolente dell’essere sforano quasi sempre in una malinconia e poi nell’ombra inquietante della parola mancante, nel suo illusorio perire e risorgere come Araba fenice, coerente visione della propria coscienza magmatica, eppure poetante, allusiva, condividibile col mondo.

Vi è in questa poetica una lungimiranza, una maturità di ritmi e di esperienza fuori dal comune. Si vuole qui, ricordare la teoria degli opposti: se da un lato l’uomo e il suo epicedio, dall’altro vi si oppone la poesia con la sua motivazione profonda, col suo essere strappo e carezza, lenimento e lacerazione, perdenza e infinitezza.

Una configurazione poetica che attiene ai grandi nomi del nostro secolo: Luzi, Zanzotto, Giudici, Bigongiali tanto per fare qualche nome, ma che da essi si distacca per volare alto nei cieli iperuranei della sua emblematica essenza.

Una voce potente e alta quella di Bonacini, un poeta tutto da leggere, da approfondire, da studiare, perché può dare enormi sorprese al lettore. 

Roland Barthes è il suo autore d’elezione, ma dentro l’astrattismo proteiforme dell’immaginazione, Bonacini ne individua i dintorni, i contorni, ne delinea le linee, la sonorità, i segnali che lo rendono autonomo e assolutamente se stesso.

 

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15 febbraio 2012 3 15 /02 /febbraio /2012 09:07

di Ninnj Di Stefano Busà

 

INGREDIENTI: gr, 150 di caffè ristetto, 400 gr. di farina per dolci, mezzo litro di latte, 300 gr. di zucchero semolato, 80 gr, di burro, 3 uova intere, 1 bustina di lievito in polvere, mezzo cucchiaino di vaniglia, 2 pizzichi di cannella in polvere, 1 cucchiaio di zucchero a velo..

 

In una terrina mescolate il latte al caffè, versatevi la farina e mescolate finché sia ben sciolta, senza lasciare gruni. Aggiungete lo zucchero, il burro ammorbidito, il lievito, la cannella e la vaniglina in polvere, sempre mescolando, Unite i tre tuorli all'impasto e miscelare bene per incorporarli. Aggiungete gli albumi montati a neve fermissima, (ricordatevi un pizzichino di sale, per montareli meglio), mescolando delicatamente (per non smontarli). Ungete di burro una teglia rotonda sganciabile fino alle pareti. Versarvi l'impasto e coprire con un telo. Attendere che lieviti almeno mezz'ora a forno spento. Mettetela in forno preriscaldato a 160°per circa un'ora. Fatela taffreddare, spolveratela di zucchero a velo e servitela.

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14 febbraio 2012 2 14 /02 /febbraio /2012 16:31

 a cura di Ninnj Di Stefano Busà

 

Così sembra entrare di prepotenza nel buio attraverso gli occhi, calarsi in esso coi sensi, lacerarne il velo che separa la vita e la morte, accasciarsi vicino alle forme meno proditorie, ma più ingenue, più fragili del nostro repertorio esistenziale. Una discesa, all’apparenza, negli inferi  di un persistente astratto, che nel caso di Ranieri va considerato un excursus, forse un provvidenziale scavo nella “parola” non detta, non pronunciata, in quella parola trattenuta tra la penna e il foglio all’interno di quel biancore indistinto, di quella significativa gnosi che non riesce ad estrapolarsi, a divenire sostanza e poi conc

ettualità, verbo, immagine e poi sfumatura, suono, affabulazione, e dunque, predilige il luogo oscuro della memoria, l’angolino seminascosto del pensiero che non emette suoni o parole. Ed è così che suppongo interpreti il concetto di scrittura anche Ranieri Teti che, in questa sua indagine, dà l’esatta misura dell’oscurità, la condizione di esilio, di estraneità e incapacità di portarsi alla luce, di formulare concetti e luoghi in cui svolgersi e ampliarsi la parola all’interno di quella visione dell’oltre o della poesia che resta oscura ai più, emarginata o assente dallo scrittoio di molti poeti.

Il linguaggio qui appare criptico, oscuro enigmatico, dentro una fitta rete che lo ingloba, ma l’uso di cifre connotative, riesce ad evocare allusive espressioni nello scandaglio dell’io individuale.

Chi non capisce nulla di poesia può avere l’impressione di essere dinanzi ad un panorama linguistico del tutto ermetico, quasi al limite del non sense. Ma, invece, ci troviamo all’interno di un messaggio denso di significati profondi. .

Questa “Entrata nel nero” acuisce la vista, da cui si evince un senso di attesa, di perturbamento, l’ansia di congiungimento alla “parola” assente, al percorso inagibile, alla solitudine riempita di suoni che non contano...di fonemi mancanti.

Per Ranieri è questa mancanza di significazione, di illuminazione il fondamento del pathos: il buio dentro e fuori non esiste, perché esistono i colori, le vie di mezzo, le tinte sfocate, sfumate.

Il nero deve essere stato preceduto da un biancore iniziale o quanto meno da una suggestiva tonalità intermedia: “l’entrata nel nero dall’ultima riga mormorata” la definisce l’autore e, ancora: “ che bagna le mani/ e il silenzio del foglio/ delle dita sul foglio”. estrema ratio, esilarante ironia della scrittura che non sa individuare forme e colori?

E’ un libro che si presta a molti interrogativi, si coniuga alla storicizzazione di ognuno, che può riverberare  alla luce di una vigorosa e allusiva simbologia la parte meno illuminata del proprio nascondimento.

Ogni verso di questa raccolta si attesta come figurativo di un’elaborazione virtuale che biancheggia nel suo repertorio flagellato dalla tenebra, ma ogni riferimento a quel buio “mortale” è lungi dall’esservi partecipe, perché di morte non ha nulla, ha invece la speranza di una scrittura sobria e penetrativa che riesca a smuovere la forma e a riferirla all’esterno di essa: poesia, appunto, o estrazione di un riferimento ad essa connesso.

Una raccolta emblematica, a cominciare dal titolo che sintetizza il percorso umano e la destinazione finali dell’uomo. Il libro si snoda su tre direzioni: Risonanze dell’oscuro, La destinazione opaca, Dove siamo scritti, quasi ad indicare una mappa di orientamento, una cartina di tornasole in una indagine microscopica sulle reali condizioni dell’individuo, a fronte del suo disagio fisico e morale: “ecco  l’andare che ritorna nelle vene” E’ un discorso del divenire che si orienta in direzione del suo nascondimento, uno spartiacque umbratile, disertato dalle regole del gioco, quasi sterile e oscurato da “ciò che avviene intorno agli occhi”, quasi esilio dalla luce, da un’esperienza di luogo e di tempo indeterminabili e indeterminati.

Metamorfosi di una ricerca che, nell’incostanza dei suoi camminamenti, è storia di ognuno e di tutti, una memoria che ricerca e scava nei meandri della tenebra la sua fatale connotazione. “Tutto essendo altrove” “destinazione opaca”, nero di fumo e nebulosa perenni che umettano in modo discontinuo la realtà del quotidiano patire, l’intenzione del superamento.

Nel tragitto di tenebra e schianti si fa avanti una condizione irreversibile di caduta, inevitabilmente ci si impatta in errori, in discordanze che condizionano o affliggono. congiungono occhi e mente in una ricerca costante del sé medesimo, per l’inverno che ci sopravanza, per il buio che ci serra, per la fine che ci attende al varco.

La metamorfosi di questo perenne magma è, sì, “destinazione opaca” perturbamento senza scampo, ma con qualche spiraglio di luce che induca a metabolizzare le sofferenze, le assenze, che immancabilmente conducono a precludere ciò che si agita in sé.

Al di qua noi, al di là il buio, (sembra dire Ranieri Teti).

Il mondo destinato al disfacimento, per raggiunti limiti di tolleranza, alla ragione dell’<essere> per le tenebre, “tra ceneri e terra” come dichiara l’autore. Un libro che disorienta, una raccolta incentrata sullla condizione precaria degli umani, ma che pure ci riserva grandi sorprese, grandi altezze per connotazione linguistica, per concentrazioni lessicali che sono l’humus e la bellezza di questa raccolta, la quale si distingue per la conduzione di un linguaggio senza scorie e orpelli, tutto snodato attorno al nucleo centrale di un risicatissimo margine di  sentiero che porta in sè strettoie inquietanti, orli di precipizi e l’umiliazione di essere instabili, provvisori in un luogo risibile, in un tempo risibile, senza salvezza, perché sapere che infine la destinazione è “dove siamo scritti” non induce l’individuo a minore sofferenza? un labirintismo che non soltanto non conforta, ma inquieta, marcando ciò che avviene “oltre”.

Ma con “l’andare che ritorna nelle vene” persiste il sentimento dell’abbandono meno greve, meno cerebrale e più vicino all’universale che è in noi, con l’esigenza di essere un divenire possibile, un episodio di minore tenebra, una ragione ultima di superamento del baratro, che in fondo domina tutto il libro, ma non elude né inficia l’ansia del deserto, la sostanza vitale del silenzio in una disamina complessiva del dubbio, in un’ansia di congiungimento ulteriore, dentro un afflato lirico tra i più complessi, che ci porta ad una meditazione, ad un viaggio analitico dentro noi stessi, ad una revisione di quel che rimane dentro e fuori di noi.

 

 

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14 febbraio 2012 2 14 /02 /febbraio /2012 11:16

 

Il sogno e la sua infinitezza di Ninnj Di Stefano Busà prefazione di Walter Mauro, Ed Tracce Pescara

 

Flavia Buldrini

 

Del sogno questa silloge poetica ha tutto il fascino malioso e l’aura trasfiguratrice, mentre il respiro d’infinito permea i versi come una fresca corrente cavalca i cieli. È la sacralità di un imperscrutabile mistero che aleggia sul caos informe del proprio destino e gli dà un senso compiuto, come è scritto ad epigrafe del testo: “La Poesia è nel destino. / Sinapsi ascensionale che sublima. / (Come a un cielo l’ala), / dagli abissi del male,  spicca il volo / e il mondo viene avvolto / di assoluto.” Si è come in un’atmosfera sospesa, tra la visione onirica e la tediosa consapevolezza del limite, di quei “cocci aguzzi di bottiglia” in cima alla “muraglia”, direbbe Montale, che impediscono di sporgersi e di affacciarsi verso l’espansione di nuovi orizzonti. Tuttavia, per Leopardi la siepe “che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude” è trampolino di lancio per tuffarsi nell’infinito; così per l’autrice, il senso ineluttabile della finitezza la sospinge nella dimensione alternativa del sogno e della sua infinitezza: “Non che io conosca la geometria dell’aria / il volo del coleottero sul ramo, / dentro la morte dell’estate è il suo flagello, / la linea di demarcazione, la palude stigea / la foglia che marcisce e alimenta la notte / incombente, senza volto e nome. / Una luce, la nostra, che ha il debito dell’usura, /l’orizzonte sempre lontano.” È proprio l’ignoto, infatti, il punto di partenza per l’avventura della conoscenza (“fatti non fummo a viver come bruti”): “Rinascere poi è come tentare / quel poco che non conosciamo, la verità / è sentiero inesplorato, sasso duro a spezzarsi, /eppure è chiaro il giorno, c’è tanta luce intorno.” L’esistere dell’uomo non è che un vagare inquieto, proiettando verso altri lidi, altri cieli, verso un altrove di utopia le proprie aspirazioni frustrate, mentre la morte, “una lingua muta / che sbianca carne e sangue, /fin dove scorre il soffio della linfa, /a sciame cattura il brusio tenace della vita”, fatalmente incombe come una spada di Damocle: “Possediamo una sola geometria di sguardi, / un germogliare labile di cieli, /che incrocia flussi migratori, /ancora col fiato sul becco, /quando la morte li attende al varco sulla rupe, / dove il viaggio si fa memoria d’aria, /sorriso di radici inquieto, /alghe e rocce che portano in mare aperto.” Si soffre di questa astenia di trascendente, così inaccessibile da poterlo anche solamente agognare, mentre ti assedia e ti stringe come una morsa fatale il cerchio delle cose finite, che tarpa le ali e soffoca il respiro: “E non è che io cerchi l’altra metà del cielo, / un ritorno d’erba dell’età primeva, / Il mio sogno ha sassi duri e licheni /sfrangiati dal troppo rinascere /fiore e radice. Ora è seccume di ramo”; “A tratti, ci restituisce l’innocenza, l’amore, / mentre calziamo l’ipotesi del volo, / ma non abbiamo ali che /ci spingano / in mare aperto, lì dove si compie / il miracolo di luce, lo spoglio della vita /che ti respira e ti perde, come il sole d’inverno…”. La vita appare troppo prosaica e angusta per poterci slanciare oltre il suo “volo breve / di una rondine di mare”: “La vita che viene, dici, non è scritta / per darci la facoltà della meraviglia, / la fioritura fuori stagione, l’anelito /dell’aquila alla rupe.” È segnata inevitabilmente dal dolore, che scava trincee, lungo il corso degli anni cinge di spine, ferisce e divora a poco a poco: “Ci pensano gli anni a puntellare / l’agguato delle ali, la liturgia /che imporpora il sonno alle ortiche. / Vi è un dolore talvolta sottile che spacca / le argille, spande i suoi silenzi /nei grumi, come il vento tra i rami. / Vi rovista il cuore nella follia degl’interludi, / ha sandali di rovi, tutta la solitudine / degli oceani, qualche seme tenace di orgoglio /a incarnarsi al libeccio, / a ferire / il disavanzo della carne che deterge il dolore.” Esso è un palpito universale con cui ogni singolo deve combattere dentro di sé: “della rinuncia ad essere stella esiliata / di una solitudine unanime che grida.” “Ma, “perché tutto il dolore / non si sciolga in grida di silenzi, / non sia epicedio di tenebra / la malinconia del tramonto”, insorge quel fuoco sacro dell’anima immortale che rivendica il proprio libero spazio di cielo in cui spiccare il volo, primizia di luce che dalla coppa dell’aurora s’immilla: “Tu, annegata nell’oceano dell’anima, / sei solo creatura d’infinito, /alba che si oppone al turbinio dei giorni, /al turbamento delle minime cose, alle assenze.”

Metafora per eccellenza d’infinito è il mare, con la sua azzurra trasparenza che riflette il cielo, con il suo miraggio di assoluto che culla l’anima che naufraga, senza ormeggi, in questa deriva di eternità: “Questo mi porta il mare: la liturgia /del suo silenzio, la pacatezza dell’umida sera, / il suo cobalto. /Eppure, niente ci accomuna, o tutto: /c’insegna la luce il suo morire, /di una pelle nuova abbiamo nostalgia, / o di un approdo senza agguati che ci stringa / al suo infinito.”

Incantevole è questo inno al cielo, velo del divino silenzio che sovrasta il mondo, respiro d’eterno che soffia come un mantice sopra l’abisso, apice di bellezza e culmine di tutte le attese: “Tu, cielo che conti le stelle, solleva lo sguardo / alle debite lontananze, tu che appari e scompari / dal fragile volto corrugato dei cipressi: / tu, solitudine desolata, incolmabile orizzonte /dei nostri desideri: fosti l’oriente e l’occidente /del mondo, la piuma docile e levigata dei sogni, / tu, terra promessa, zenith delle contratture, / delle offese, delle festevoli voci. / È tempo di monologhi, di trasparenze, / di venti incorrotti e incorruttibili /che schiantano implacabili i fortilizi. / Non può che giungere da te l’inestinguibile /oblìo.”

È l’amore la forza indomita che ti fa correre a braccia aperte incontro alla vita, che ti mette le ali ai piedi e il vento nei tuoi passi: “C’è una sola felicità a farti calzare / i sandali col vento: se incontri l’amore: /come camminare a ritroso nel buio /sbucare dalla solitudine al sole..” Come nel mito platonico della metempsicosi, si ha una reminiscenza di quella condizione edenica perduta, di quell’“eliso che specchia l’amore / nella bellezza avvampante dei corpi”: “Come vela dirupata dall’albero maestro, / lì, si srotola la geometria del cielo, / nelle sue litanie manchevoli la reliquia, / fatta corpo, saccheggio di passione e oblìo.” Infatti, è l’inguaribile nostalgia di quel Paradiso perduto dove “vi schiumò l’oro dei tempi felici”, che muove gli ardenti accenti dei poeti, il perseguire quell’archetipo di bellezza e di armonia che suscita i phantasma poetica, come osservava Leopardi: “Tu rosa candidissima, mio sogno, torna / al brivido primo, alla placenta che nutriva / il molteplice dall’irripetibile vagito, / della prima aurora del mondo.”

È la passione che sembra dominare l’uomo e non la pazienza del ciclo naturale, “la fedeltà delle galassie, / l’acerba sostanza che muove gli alfabeti”: “Abitiamo l’addio, vaghiamo in direzione /del tempo, come fiato che si perde /nella corrente sonora di un flauto. / Non ha note l’arpa delle nostre ebbrezze, / solo passioni carne e sangue, per impaziente / sortita di nascita che nega la sua morte.” L’anima è testimone silenziosa dell’umana vicissitudine, di cui custodisce gelosamente la memoria: “Altro tempo fu il nostro, altri la parola /gemmante e l’amore funambulesco, / l’accesa tenerezza che fiorirono dall’orma / dei pensieri sorvolando / tra le pietre e le risa, spandendo tra capelli / i diluviali silenzi, grazia d’eternità. / Paziente l’anima trascrisse / la fiaba sapiente che l’attraversò.”

Tutta la poesia del legame viscerale materno rivive in questi versi: “l’eterno negli occhi /di tua figlia, / ardenza azzurra, stracolma d’aria e rondini”; “Oggi riallaccio fili d’anni, il tuo riso / di pesca e la minuscola promessa / racchiusa tra le labbra e il sole, / mia nostalgia di carne, stella abbagliante, /sottile grumo di sangue che investì /il mio grembo e fu sostanza nodosa / di quel grido d’amore, indicibile festa.”

In questa dialettica di gioia e dolore, luce e tenebra, infinitezza e finitezza (“È in questo fiorire d’attese, / il germoglio mancante, l’instancabile: /perdersi per ritrovarsi un solo momento”), ci attende, inesorabile, la fine, che inghiotte il tumulto impaziente dei giorni: “Qui finisce il fiume la sua corsa, / perduti in un groviglio di dolore, / ci avviamo al silenzio delle rive, / come un grido dall’esiliato corpo, / sorseggia qualche felicità remota, / i fiati sempreverdi da lontano.”  Eppure, nonostante questo ingranaggio spietato di “cieche ruote dell’oriuolo”, per dirla col Foscolo, c’è una forza divina, una dimensione metafisica, che sovrasta e vince ogni contingente contrarietà: “Dove le strade divergono c’è ancora / quella luce che non s’arrende, / quel grido immenso di libertà / che la fatica del divenire sorprende.”

Si traccia come un bilancio della propria vita, teso a trattenere i depositi d’oro dal setaccio degli istanti preziosi (“fosti vento e orma d’infinito, / fiore infuocato della giovinezza”) e a inseguire i rimpianti di tutto ciò che non è stato investito nell’eterno: “I versi che non scrissi, a mezz’aria, / mi urlano dentro. / E manca l’unica parola che dia fiato / ai giorni, quelli che amore / tracimò in cima al tempo…”; “Dal naufragio salvo le parole, / quelle che resistono alla lapidazione, / al gioco delle parti, alle spore di pianto. / Mi parlano. Come un loto bianco / alla luce chiama ancora l’anima al suo stupore.

I versi di Ninnj Di Stefano Busà sono intessuti di echi letterari impregnati del fascino misterioso di quell’ermetismo che ebbe i suoi illustri esponenti (soprattutto si possono riconoscere le vestigia di Quasimodo, Montale, Luzi), impreziositi di una rigogliosa fioritura immaginifica e sostenuti da una salda impalcatura intellettuale, nell’intensità delle meditazioni. Non si può che restare ammirati della bellezza monumentale degli arazzi iconografici e dei fregiati arabeschi che costellano l’universo demiurgico dell’artista e deliziarsi della suprema armonia che si compone nella perfetta incastonatura e cesellatura delle parole, in una raffinata squisitezza poetica tutta da delibare nella sua incantevole suggestione lirica: “È gravida la notte di tutti i silenzi. / l’anima ne dipana le sue forme”; “Contrabbandieri di un solo viaggio /esasperiamo gli albatri alla riva”; “silenzi, che sciamano, / come fasci di luce nella penombra, / quando assaporano l’attesa che li nutre”; “Ora torno illesa alla mia incandescenza, / alla distanza oscura della notte.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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12 febbraio 2012 7 12 /02 /febbraio /2012 14:13

 di Ninnj di Stefano Busà. Prefazione di Walter Mauro

Epitalamio : imen al tempo e al viaggio

di

Carmen Moscariello

Quest’opera di Ninnj di Stefano Busà ha un valore escatologico dove la vita  è pellegrina in assorta ricerca dell’uomo e di Dio.

Voi strappandomi i mari, la ricorsa,lo slancio/e dando al piede il sostegno di una terra forzata, /che avete escogitato? Un calcolo sagace:/

il moto delle labbra non può venir sottratto.

Leggendo i versi della Busà si sente riecheggiare la Osip Mandel ‘Stam, la stessa ostinazione e coscienza che la parola poetica in certe vite può rappresentare l’Assoluto e ancor più il mezzo essenziale a sostenere un arco teso di ansie e aspettative laicamente e divinamente rincorse.

Sgocciola amaramente la vita cucita e ricucita con foglie arse , con stilemi delicati di sole e di narcisi che nascono nei luoghi insoliti e pericolosi dell’esistenza di alcuni. Cogliere quei fiori può costituire il sacrificio di se stessi, l’annullamento coraggioso in silenzi d’ attesa.

Il sogno e la sua infinitezza nidificano  nel cuore della Poetessa. Qui  la parola con la sua eleganza insegue e focalizza il sogno per consegnarlo al lettore col suo  leggero e trasparente enigma.

Sipari d’ombra con raggi in traverso!

Le parole  mietono ore corrucciate di solitudine e abbandono, il tempo è spia e allinea le  ore , dall’ombra della morte  i battiti e gli  echi che feriscono per le impietose meditazioni sul vivere .

L’humanitas poetica, qui travolge e sconvolge l’aria (con memoria d’aria) .

Le sbarre non limitano l’Infinito Essere, seppur configurano una prigione ormai infinitamente dolorosa da sopportare: il cielo e il vento hanno voci attutite, più alta è quella del Poeta. La parola assume metamorfosi delicate, senza sottrarsi al dolore di dire, annunciare, assaporare, scrutare.

La poesia è nel destino dell’Autrice, marchio  a fuoco ,vocazione alta e veritiera . Il tempo è acquoso libera  un grido trafelato,  inclemente nemico al desiderio di infinitezza che si innalza .

 Incalza il viaggio: il tempo e il viaggio  sono epitalami di questa scrittura poetica. Si inseguono dilaniati con poche tregue. Le febbri umiliano, ma rientrano nella consuetudine poetica, riducono in polvere, ma la ricerca di un altrove di infinitezza non cede il passo . Il demone poetico è liberatorio, più forte di qualsivoglia umiliazione. La morte assedia, è lì in agguato; bandito con sguardo furbo che osserva in silenzio un crudele silenzio.

In quest’opera  i  protagonisti sono il tempo e il viaggio, i loro occhi sapienti sanno guardare, sfidano il dolore, con coraggio non rassegnano alcuna dimissione.

Alla Busà ,Il suo ruolo di Poeta le permette di posarsi sul gradino più alto, da lì guardare la  vita, nel suo percorso: un fiume con molti ciottoli, con improvvisi fascinosi gorghi, tutto si esplicita senza riserve. La poesia non diviene mai gemito.

Il percorso lumeggia incredibili limiti; il tempo insaziato cerca la vita, desidera la vita! Nella sua pienezza di albe e di notti, di estate festose e d’inverni ghiacciati , la poesia  tutto ci restituisce; non si placa la volontà di amare e cercare la vita, interamente. Lo scudo del sogno non fa intravedere future appaganti gioie, rimane desiderio infinito, dolorosa trepidante ricerca, traguardo mai raggiunto dell’infinito senso di Dio.

 

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11 febbraio 2012 6 11 /02 /febbraio /2012 10:17

di Ninnj Di Stefano Busà

 

L'aria che tira è veramente venefica, un po' squallida e anche devastante per il cervello dei più. In questa società del post-moderno interamente votata alla realizzazione pecuniaria, permanente dell'io nei riguardi dell'interesse privato, è andato smarrito il senso delle regole, delle virtù morali, finanche del dubbio: ora si è convinti persino di essere nel giusto, di non dover dare conti e ragioni alla coscienza. Un pluralismo di voci osannanti al dio-denaro, ecco cosa siamo diventati.Ogni cosa, ogni gesto, ogni impulso si riformula alla luce di un vivere sotterraneo di sotterfugi, di tentativi esclusivamente privatistici, in cui è difficile penetrare la soglia del buon senso, del gusto, del decoro, Tutto inappropriato, maledettamente nato per dare lustro al "misero" che è in noi, a quello che non ha presupposti di successo, il quale il successo se lo prende da solo, con l'inganno e saltando "il fossato" delle remore morali.

Ogni azione, è mirata ad investire ogni più piccola particella del proprio ego in questa impresa privata, pagana.Si è andati scivolando in questi ultimi vent'anni in una palude malsana che sobilla i valori, i significati per esaltare tutte le possibili strade del successo, Si è andato testando anno dopo anno un potenziamento dei falsi ricchi, dei drogati del denaro facile a discapito della parte più intima e spirituale dell'uomo.L'individuo scivolando verso il basso ha avvertito sempre di più il bisogno insopprimibile, estremo di "essere" dentro l'opportunità del possesso materiale: avere, possedere, mostrare ricchezza, sfondare il muro del sacrificio, del contenimento dei freni inibitori."Avere" è la parola d'ordine, e soprattutto, apparire in un delirio dominante di inganni, di prevaricazioni, di sotterfugi... pur di esser(ci).

Tutto lo sviluppo dell'esistente si è andato ad impantanare nel ricorrente bisogno di benessere materiale, di lusso, di potere, attraverso quello che è l'integralismo formale del concetto-uomo, ha reclamato, lungo un tragitto spericolato, una gabbia di menzogne entro cui viene divorato dalle apparenze, stretto dalla invasiva e sovversiva esigenza di attestare il suo -io- più egoistico, prodotto deteriore di un cambiamento epocale di una società priva di scrupoli, nella quale l'individuo in quanto tale è allo sbando, perché non sono più i valori a dominarlo, a frenare i suoi impulsi temerari, animaleschi, le aspettative di vita significanti, ma il desiderio folle, l'ardire di voler interpretare se stesso sulla scena dell'esistente.Da qui, il groviglio di dannazione che sfugge ad ogni controllo per il raggiungimento di una felicità possibile.L'aria è quasi irrespirabile.

Siamo immersi nella più iniqua esercitazione del pensiero dominante che non è più (ammesso che lo sia stato) autocritica, ma subalternità alle funzioni, ai vantaggi, agli interesse che può procacciare il denaro...Siamo immersi in una pantano ostile a principi dell'etica, ostili ad ogni riferimento di carattere evangelico-fideista, lontani anni-luce dalla consacrazione a gerarchie di sentimenti nobili, alti. Un precipizio ci sfila innanzi nei riferimenti profondi dell'esistenza che c'inghiotte nella gola profonda dell'inettitudine e del degrado.

 Vi è una sorta di tacita sottomissione all'ideologia che domina il nostro tempo, un travisamento epocale che fa suo e assorbe tutto il modus vivendi del tempo che ci resta. Ogni azione non fa i conti con la coscienza; è fatta su piani differiti, come se non fossimo noi a dare l'input, ma lo sterminatore di felicità che sta dentro di noi per allestirci la trappola mortale. La regola è escludere la coscienza – metterla a tacere – e allearsi, farsi tutt'uno con l'ardire, col mostrasi, col destreggiarsi coi muscoli e la forza bruta, apparire in tutto e per tutto, essere artefici del proprio destino, mai come ora.Il post-moderno ci ha regalato, l'imposizione a fare di noi una "libertà assoluta" senza fede, un'illusione di felicità che ci viene dal nulla e che nel nulla ci respinge, ci ha delegati ad essere il modello più devastante della nostra insipienza, del nostro smisurato orgoglio e della superbia che ne deriva.

Al bando i nostri bisogni interiori; la follia ci spinge "altrove", ad impersonare ciò che non siamo, a calpestare e neutralizzare le forze "buone" di un progetto di vita più elevato, più degno e forse in definitiva più adatto al genere umano, ontologicamente parlando.

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10 febbraio 2012 5 10 /02 /febbraio /2012 18:21

PREMIO INTERNAZIONALE TULLIOLA 2012

Premio di Poesia Renato Filippelli

XXI EDIZIONE

 

 

  bandisce  il concorso della XXI edizione

del premio “Tulliola” .

 

Regolamento:

Il Premio di Poesia porterà il nome del Poeta Renato Filippelli che per diciannove  anni l’ha presieduto,  contribuendo alla sua fama e al suo prestigio.

Specificamente all’ opera  del Poeta è dedicata la  seconda sezione del Premio.

L’associazione Tulliola ha, inoltre, istituzionalizzato un Riconoscimenti d’Onore da consegnare ad indiscusse Personalità impegnate nella lotta alle mafie ed a Personalità del mondo della cultura  e della società civile.

Il Premio comprende 5 sezioni:

1)   Premio di Poesia Renato Filippelli: Poesia edita (inviare 10 volumi );

2)   Opere edite o inedite che comprendono monografia, saggio o articolo giornalistico dedicati alla Poesia di Renato Filippelli (8 copie);

     3) Romanzo edito (inviare 8 volumi )

    4) Saggistica edita (inviare 8 volumi );

Non è richiesta tassa di lettura per nessuna delle sezioni.

 

5)Premi  d’Onore :

 

 d) Due preziose incisioni del Maestro Gerardo De Meo verranno consegnate a personalità che hanno dedicato la loro vita alla lotta alle mafie, alla diffusione della cultura o all’ impegno nel recupero dalla tossicodipendenza.

 

Giurie.

 

Giuria della sezione Poesia edita o monografia, saggio o articolo giornalistico dedicato a Renato Filippeli .

 

Giuria:

 Presidente:  Ugo Piscopo;

Segretario:   Mario Rizzi;

 

Componenti:  Mimma Formicola, Marina Argenziano, Silvano Cuciniello, Franco De Luca, Erasmo Magliozzi,  Mario Rizzi, Manfredo Di Biasio.

Giuria  sezione Saggistica:

Presidente: Mary Attento;

Segretario: Barbara Vellucci;

Componenti: Maria Pia Selvaggio, Manfredo Di Biasio, Giuseppe Napolitano, Giuseppe De Nitto, Tommaso Pisanti.

 

Giuria  sezione Romanzo :

Presidente:  Ninnj Di Stefano Busà;

Segretario: Barbara Vellucci

Componenti: Antonio Spagnuolo, Michele Graziosetto Alessandro Petruccelli, Mario Rizzi, Manfredo Di Biasio,Domenico Pimpinella.

Il giudizio della Commissione è insindacabile e le opere non saranno restituite.

Carmen Moscariello è la  presidente e fondatrice del Premio;

Presidente onorario Erasmo Magliozzi.

 Le opere dovranno pervenire entro e non oltre il 16 maggio 2012 presso  Carmen Moscariello, Via Paone S.Remigio, 04023 Formia -LT- .

All'interno di ogni singolo libro o articolo giornalistico inviato devono essere indicati tutti i dati del partecipante, compreso numero telefonico o indirizzo mail. Si prega di allegare anche una dichiarazione scritta e firmata con cui si autorizza la pubblicazione sul sito del proprio nome in caso di vincita o di segnalazione.  Per informazioni: tel. 320/8597966 mail: carmen.moscariello@yahoo.it  barbara.vellucci@libero.it ;

 Ai vincitori andrà un’opera d’arte degli artisti : Salvatore Bartolomeo, Giuseppe Supino, Raffaella Fuscello,  Antonio Scotto,  Franco De Luca , Antonio Conte, Celestino Casaburi e Francesco Paolo Stravato.                                           .

Per aver diritto al premio bisogna essere presenti alla cerimonia di premiazione. Tutti coloro che non saranno presenti non potranno ritirare il premio successivamente;

I vincitori saranno avvertiti telefonicamente, o con lettera, o tramite mail . Dovranno dare conferma della loro presenza  alla cerimonia di premiazione;

 La premiazione si avrà a fine ottobre  2012 nella splendida cornice del  Castello Miramare di Formia;.

  Il Premio non ha contributi di enti pubblici, né privati;

tutti i membri della Giuria operano senza compenso alcuno;

 Il numero dei premiati varia ogni anno, nel precedente concorso sono stati premiati circa 40 autori (Il Premio ha sempre avuto una funzione di incontro felice tra autori e artisti provenienti da tutta l’Italia).

 Ogni informazione e tutti gli aggiornamenti saranno prontamente pubblicati anche sul sito del premio http://digilander.libero.it/premiotulliola/

La presidente del Premio

Carmen Moscariello

 

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7 febbraio 2012 2 07 /02 /febbraio /2012 11:45


Prefazione a
Quella luce che tocca il mondo
di Ninnj Di Stefano Busà

 

 

a cura di Emerico Giachery

 

Accogliere un nuovo libro come un evento dal quale ricomincia il mondo di un poeta è possibile in un libro come questo, così colmo, intimamente organico, e così se stesso pur nel lungo e celebrato cammino di Ninnj Di Stefano Busà. Giova, comunque, prendere atto di qualche lampo interpretativo degli eminenti maestri che si sono espressi su opere precedenti (Piromalli, Manacorda, Bárberi Squarotti e non pochi altri), e poi andare avanti. Non dimenticare, soprattutto, la densa e scavata Lettera-Prefazione al volume L’arto-fantasma (2005) della stessa poetessa. Il prefatore è uno dei personaggi più apprezzati del secondo Novecento letterario, Giovanni Raboni, poeta militante capace come pochi di capire altri poeti e di parlarne con avveduta penetrazione. Certe sue impressioni e formulazioni sulla poesia di Ninnj Di Stefano restano decisive. Per esempio: “una voce che ha nel suo sfondo il mistero della parola fuori della routine”. Oppure: “la novità di un modernismo non aberrante, non raggelato da spettrale figurativismo né minimalismo che ne denuncino il disabitato conflitto coi significati interiori più spirituali”. O ancora: “un limpido assolo fra i drammi privati e quelli più universali cha fanno il consuntivo di una sperimentazione in limine, di ottimo livello”. Infine, “l’impressione di trovarsi in un clima diverso, quasi di sospensione fra la ragione dello strazio e il suo superamento”.

Ricordiamo anche la nota con cui l’autrice spiega il titolo, davvero singolare per un libro di poesia, come L’arto-fantasma: “in campo scientifico-medico quella particolare condizione nella quale, nonostante l’assenza fisica, sembra permanere nell’individuo, al di là dell’atto amputativo, la sensazione di reperibilità immanente, di persistente disagio o turbamento, che indichi l’indivisibilità, quale scaturigine di una sua irrinunziabile adesione all’atto unico e irreperibile dell’esistente”. Spiegazione minuziosa, questa, di una ruvida immagine, e quasi allegoria, della condizione d’assenza, di un’assenza-mutilazione dolente, che è anche, al fondo, nostalgia di totalità. Secondo l’autrice, proprio questa è “la condizione della poesia e della parola nell’attuale società tronca, violentemente amputata, assente, eppure ancora vitale nelle rappresentazioni e nelle sensazioni che riesce ad evocare”. Interessante anche l’annotazione, certo di mano della poetessa, alla coinvolgente riproduzione in copertina di una terracotta di Laura Rossi Ravaioli dal titolo Decostruita: “indica la bidimensionalità dell’anima divisa e moltiplicata dall’assenza”. Musa generatrice anche di Quella luce che tocca il mondo, l’assenza, in Ninnj Di Stefano, “non è desertificazione o estinzione”, precisa Raboni.

Nostalgia, semmai, dell’Essere perduto, degli Dei fuggiti o nascosti, delle stagioni consumate, che diventa appello alla necessità della parola, o pausa musicale, o respiro di leggerezza e quiete ritmica. Ha forse qualche affinità col vuoto interiore che il guru meditante consegue perché necessario all’auspicata irruzione del divino.

Il proposito è ora incontrare senza ipotesi pregiudiziali il nuovo libro nella sua unicità e singolarità, come se si affrontasse un’opera figurativa adespota da attribuire: è un suggerimento di Gianfranco Contini al quale volentieri mi attengo di fronte ad un nuovo testo ancora inedito o fresco di stampa. Stavolta, tuttavia, era necessaria un’eccezione per il grande motivo dell’assenza, radicata nella poetica stessa dell’autrice e nella sua concezione del mondo: averne già nozione è disporre come di un privilegiato frammento di “avantesto”. Che però – ecco – ci introduce già nel nuovo testo. Che poetica costellazione d’immagini vi ha generato e profuso la nozione-chiave di assenza! Assaporiamone alcune: “vuoto lasciato dalle cose”; “echi senza voce”; “ le cose dileguate | o assenti”: “ scalmi alla deriva, senza approdi”; “la salvezza che non cogli”; “giorni senza incensi, senza mète; “lande disabitate, indizi cancellati”, “un diario | senza pagine, l’ora che non c’è”:“inconsistenze che trattengono silenzi”; “suoni senza vita, giorni che non tornano”; “il senso delle cose perdute”; “l’attimo non torna, proprio non torna”; “guizza dall’anima il lamento | per le cose assenti”; “rose sfatte | ai muri dell’inverno, consunte le parole”; “un dire senza attese”; “momenti di un codice segreto | che contorna la vita che non c’è”; “tu parti e non hai mèta, arrivi e non sai | il nome dei luoghi dell’altrove”. Di notevole interesse l’implicito protendersi dall’assenza verso l’“altrove”: una sorta di etimologico ex-sistere. Forse per tentare voli verso un ipotetico Oltre, la terra “ci fa germoglio d’ali”? . L’impari, e perciò tanto più intrepida, sfida della parola e della scrittura al vuoto dell’assenza è comunque un suggello impresso al libro. Eccolo: “le parole sfilano | e non sanno che sistemarle per poco, | seppure sulla carta, serve a dar loro ancora | un po’ di senso una voce un corpo | che le leghi e perduri oltre l’assenza”.

Libro compatto, omogeneo è dunque Quella luce che tocca il mondo. Da recepire e godere come unità. Unità poematica? “Poema lirico-filosofico”, si potrebbe dire con un po’d’enfasi, soltanto se mirasse a divulgare una dottrina e se del poema avesse la struttura, con palesi svolgimenti diacronici. Il suo, invece, è un tempo quasi ciclico. Assomiglia al tempo della meditazione, non al tempo della diegesi. Assomiglia a ricorsi di stagioni: analogia o affinità con le stagioni è del resto partecipe sintonia con la grande natura.

Si articola in riprese, ritorni, approfondimenti singoli, pur nel costante clima diffuso. “Variazioni”, si potrebbe dire con allusione musicale (richiami a situazioni musicali sono qui pertinenti e illuminanti). Non su tema unico, come è consuetudine nella musica, bensì su un coerente plesso tematico, che rappresenta, se così è lecito dire, la sua stessa struttura, e la scansione di una fondante concezione del mondo, che corrisponde, mutatis mutandis, a quello che è la tonalità per una composizione musicale.

La concezione del mondo non è compendiata né compendiabile in formulazioni (giacché si pone anzitutto come effuso sentimento del mondo). Non proclamata né sbandierata, si accende, e più spesso traspare in controluce, qua e là.

Il segno cristiano, accennato appena nella prima poesia del libro (“tu non sai perché questo giorno | è inchiodato al legno della croce”), compare esplicitamente solo in Sarà pane, in una generosa visione escatologica: “Gli angeli laveranno il peccato della croce, | il pianto sarà acqua benedetta, | di Cristo avrà voce la salvezza”. Il sintagma “il cielo sopra di noi” non può non ricordare la celebre formula kantiana: “il cielo sopra di noi | è un dono che non finge”. L’“Esserci” è certa allusione al Dasein di Heidegger: “Dunque è qui l’indistinto, il minimale, l’esser(ci)”. I vocaboli “cose” e “mondo”, ricorrenti almeno una dozzina di volte, ci immettono in aura fenomenologica.

Singolare, infine, la ricorrenza del termine “implosione” (una sola volta si trova “esplosione | delle spighe”) e del verbo “implodere”, che acquisiscono qui quasi una patina di “idioletto” e richiamano l’estroso monologo di un Amleto dell’era spaziale nelle Cosmicomiche di Italo Calvino. “Esplodere o implodere – disse Qfwfq – questo è il problema: se sia più nobile intento espandere nello spazio la propria energia senza freno, o stritolarla in una densa concentrazione interiore e conservarla ingoiandola. Sottrarsi, scomparire, nient’altro; trattenere dentro di sé ogni bagliore, ogni raggio, ogni sfogo, e soffocando nel profondo dell’anima i conflitti che l’agitano scompostamente, dar loro pace, occultarsi, cancellarsi: forse risvegliarsi altrove, diverso”. Patina di “idioletto” ha forse anche il molto usato termine “epifania”, indizio di una modalità intensa, a volte quasi mistica, di incontro con l’oggetto Un esempio: “Tutto è nel suo farsi [= del giorno] breve e senza luce | nel suo porsi come epifania di senso”. La suddetta patina è conferita dalla coloritura vivamente personale a diversi altri lessemi, dilatandone e arricchendone il senso. Per esempio “rammendo”(“pianto che ferisce il suo rammendo”); “miele” (“il miele del tramonto”o “il miele del ricordo”), che sostituisce “dolcezza”, rendendola più concreta e meno sentimentale. Poi “arsura” (non “l’arsura in giro” topica diOssi di seppia), e “brivido”, spesso plurali, entrambi con estesa e forte connotazione esistenziale: nel primo caso tendente a volte a crudezza assetata (“arsure di sensi, volti e nomi”), nel secondo a tensione emotiva, vibrazione: “la parola chiusa nel suo brivido”, “inesplorati brividi”. Si trovano comunque entrambi associati, una volta, in “brividi d’arsura”.

Pensiero poetante, dunque? Poesia pensante? Preferibile parlare di concezione del mondo, non sistematica e tuttavia coerente; incarnata, come è proprio del dire poetico, in immagini, in ricorrenze tematiche armonicamente variate e in una felicità ritmica e metrica senza sbavature, commisurata al respiro del contemplare, del meditare e del rammemorare. Raboni suppone, almeno per quanto concerne il libro da lui prefato, “aspetti e suggestioni della poesia meridionale del Novecento”. Nel libro che qui ci si offre, una sola volta è ricordata la Sicilia natia: “la mia terra di zagare e uragani”. “Tratturi” ci trasportano al pastorale Sud abruzzese pugliese molisano: “respiro lento | di fiumi a segnare tratturi”, “il profumo dei tratturi”, “luce sfinita | sui tratturi”. Ricorrenti “chitarre” potrebbero evocare – ma è soltanto una supposizione – l’area della “matrice mediterranea” di cui ha parlato Raboni: “vegliano chitarre nelle aie estive”, in Paese senza tempo (titolo d’alta pregnanza!), che ritorna in L’oracolo, “tortorelle | di un sogno perverso che veglia chitarre | nella aie estive”, e in Quella forza, “Una memoria, un fuoco hanno giorni appesi | alle chitarre dell’infanzia”. Ma il contesto melodico e ritmico, con quegli adagi e larghi, pacati e pausati, e di frequente “aperti” al fluire di magistrali enjembements, ci fa immaginare un orecchio che abbia assimilato la vitale lezione metrica del Quasimodo postbellico, in cui più di un poeta del Sud ha riconosciuto una misura congeniale.

In ogni caso il protagonista (talvolta dissimulato) della poesia italiana, l’endecasillabo, qui si affaccia con slancio. A volte si afferma in momenti di incisività gnomica: “ l’inutile distanza delle cose”; “Ci restano le strade consumate”; “ciò che non muta, ciò che non ritorna”; “il nostro è un regno dai confini incerti”. A volte offre propizi avvii (“Ogni giorno è votato al suo silenzio”, “Silenziosamente tutto splende”) o misure di compiutezza: “Tutto poi torna alla sua breve quiete”; “che ricompone giorno dopo giorno”. “D’altro naufragio è l’età che non torna” ha un vago alone ungarettiano. Invece Montale, che ha “salato il sangue” di più d’una generazione ed è, secondo Raboni, tra i maestri capitali di Ninnj Di Dtefano, con l’eco del quasi proverbiale anello che non tiene è presente nel verso: “e il rammendo non tiene. Tutto è stato”, e anche altrove. Del resto, proprio nello stesso testo, dal sintomatico titolo Niente ha nome o voce, è già presente quasi un “ammicco” montaliano: “sabbia che si addipana senza consumarsi”. Montaliano un verbo come “avvena”: “la carne del dolore che l’avvena”. “Fuori piove” sono le ultime parole di Ai transiti del vento come delle memorabili Notizie dall’Amiata. Anche in Ossi di seppia aleggiava, come qui aleggia, una esitante “attesa di salvezza”. Non manca il “varco”, forse non immemore di quello esemplare della Casa dei doganieri: “Questo varco, la sua ipotesi | ti porti dentro”; il mondo è “racchiuso in sé, senza varchi provvisori”. Parecchie – ma non necessariamente montaliane – le “occasioni”, importanti aspetti della condizione temporale: “Le occasioni poi scorrono in un fluire | d’acqua e neve”.

Il Tempo: uno degli elementi portanti dell’universo immaginario e semantico di questo libro. La parola “tempo” vi compare non meno di venticinque volte. Altrettante volte vi compare la parola “silenzio”, ma per lo più al plurale: Leopardi, con i suoi “sovrumani silenzi”, ha additato la suggestione poetica di un plurale che aggiunge, si direbbe, un orizzonte di spazialità. Ecco due significativi endecasillabi: “L’eco è breve, già chiama dai silenzi” e “albe chiare ritornano ai silenzi”. Il dinamico“vento” (“vento che muta le sembianze”, “odissea di vento”) compare una dozzina di volte; altrettanto i già ricordati “mondo” (“il mondo è lì”) presente anche nel titolo e “cose” (“la storia cambia il senso delle cose”). “Lento” è aggettivo caro all’autrice (“il lento respiro delle sere”) e suggerisce, in amichevole sinergia con “silenzio”, un “tempo di lettura” riposato e pausato che corrisponde col respiro della scrittura.

L’indicazione meramente statistica delle concordanze, già in sé stimolante, è peraltro soltanto un avvio, una prima chiave. Uno dei “piaceri del testo”, che è quello di esplorarne percorsi e sensi per goderne la poliedrica compiutezza, si accresce nel riconoscere le metamorfosi semantiche dei segni, il loro combinarsi, intrecciarsi e corrispondersi per dar vita alla sinfonia del tutto.

Un tutto, in questo caso, segnato fortemente dalla luce, forse proteso verso la luce. Di fronte a una diecina, o poco più, di segni dell’“ombra”, (“è troppa l’ombra che ti passa | addosso e ti nega il profilo del sole”), la “luce”, che già signoreggia dalla posizione potente del titolo del libro, ricorre poco meno di quaranta volte in una raccolta di settantaquattro poesie. Evidentemente non si tratta soltanto di una parola-nucleo, ed è più che un tema tra altri temi. La tradizione biblica, e soprattutto neoplatonica e mistica, è così impastata nella cultura europea, nell’anima europea, nel nostro immaginario, che non è facile dissociare la luce dal senso del divino e dell’assoluto. Dal I secolo in poi si forma una metafisica della luce, in cui avrà notevole parte Dionigi Aeropagita, poi il francescano di Oxford Roberto Grossatesta col suo De luce (“la prima forma corporea è secondo me la luce”), contemporaneo del luminismo trionfale del Paradiso dantesco. Poi, l’elemento poetico della luce nella pittura europea, soprattutto da Caravaggio in poi. Poi, per esempio, il “lungo viaggio verso la luce” di poeti come Mario Luzi, più che mai poeta della luce da Per il battesimo dei nostri frammenti al Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini. Non sappiamo, del resto, quali orizzonti ci schiuderà la fisica di domani nello studio della luce.

In questo libro il segno luminoso ha valenza per lo più positiva: “evoca spore in attesa di luce”, “a tentar luce mai vissuta”, “generiamo luce d’amore”, “l’emergenza di luce”, “epifanie di luce”, “una mezza verità | rivelata dalla luce”, “Al gran clamore il giorno proietta | la sua luce, nelle strade, nei vicoli”, “un’allegria di petali alla luce”. E quando è negata è forse anche nostalgia e sgomento per una pienezza ontologica minacciata o perduta, e perciò è quasi implicitamente riaffermata: “luce che si spegne”, “perdita di luce”, “luce che diventa opaca”, “luce che non brilla”. Per concludere luminosamente la prefazione si può ricorrere a questo verso (ancora un endecasillabo!), che sembra renderci partecipi alla tensione spirituale del libro: “ognuno porta l’onda di una luce”.

 

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7 febbraio 2012 2 07 /02 /febbraio /2012 11:33

Lettera-Prefazione a
L'arto fantasma

a cura di Giovanni Raboni

Gentile Signora, conoscevo già la Sua poesia per averla avuta in lettura dall’amico comune Attilio Bertolucci che già l’apprezzava da lunghi anni. Di primo acchito, mi aveva sorpreso il tratto sicuro e lo stile limpido e appassionato: una voce che ha nel suo sfondo il mistero della parola fuori dalla routine e qualche rovello nel cogliere i soprassalti di memoria nei ricorrenti motivi che ne esprimono forme intelligenti, smaliziata strategia di linguaggio. Sin dagli esordi, la Sua poesia mi pare rientri in un filone di modernismo moderato, senza arbitrarie oscillazioni nelle quali è facile smarrirsi. Rare volte, devo ammettere, capita di leggere poeti di una certa struttura, e la sua poetica – se mi consente – è poesia dal profondo. Vi è un’autentica vocazione che la determina, come un flusso magmatico che fuoriesce dalle viscere della terra e scopre la vena inesauribile del territorio, lo scava, lo trasforma in panorami in cui è riscontrabile la traccia del passaggio di lava incandescente. La coscienza, pur sofferente, non si esime dal cercare quei brandelli di luce, di verità cui anela, forse per redimerli dalla finitudine terrestre o dalla condizione di naufragio, o che altro non so, Le abbia maturato in seno la malinconia dell’assenza, dell’innocenza violata o mutilata da un protocollo esistenziale di profondo disagio.

Nel conoscerLa più da vicino, al Premio “Penisola Sorrentina”, in occasione del conferimento alla mia persona del premio per l’edito Tutte le poesie (Mondadori), nel quale Lei era componente dell’autorevole giuria, mi sono trovato dinanzi un poeta-donna di rare capacità, non il monumento di poesia privo di matrici ideologiche o aspirazioni. Lei mi è parsa, da subito, una garanzia contro l’occasionale raffazzonamento, una chiara testimonianza di come si possa fare poesia con l’eredità privatissima di un patrimonio di interessi intatto, di intelligenza, di umanità e nel cui ordine di scrittura risaltano e splendono di luce propria le marcate unità di fondo, che sono nell’ordine: lo stile, la novità di un modernismo non aberrante, non raggelato o afflitto da spettrale figurativismo né minimalismo che ne denuncino il disabitato conflitto coi significati interiori più spirituali. La matrice mediterranea che integra un linguaggio quasi unico nel diorama odierno (in fatto di donne poetesse), mi pare non abbia gran bisogno di necessari avalli o testimonianze ulteriori. La sua poesia è scevra dall’assillo riformista ad ogni costo, dall’inerzia fuorviante senza capacità riflessive, dalla difficile impresa di dover rappresentare alcunché; credo che a nessun’altra allusività e necessità essa voglia mirare, se non a quella della Sua voce attenta a non spargere inchiostro di sregolatezza e stravaganza in episodi di scardinamento della poesia stessa.

Attraverso la filigrana autobiografica, l’incidenza delle suggestioni è offerta con la dovuta moderazione, fuori da iperbole, incline alla metafora, senza mai debordare o uscire dal solco di una perfetta misura di fughe e di ritorni; si va quasi a saldare a quella linea immaginaria tra il reale e il sogno, tra l’unità dei temi vita-morte e il nichilismo, che sono in definitiva l’assillo e il referente mancati di tanta poesia al femminile. Lei si dibatte in un limpido assolo fra i drammi privati e quelli più universali che fanno il consuntivo di una sperimentazione in limine di ottimo livello. Vi sono nei Suoi versi varie sfaccettature, che a misura di forti assenze, ingenerano uno stupefacente stupore (me lo lasci dire). Ma quel che trovo interessante è come i grandissimi vuoti dell’anima non vengano intrinsicamente violati dalle condizioni germinali di disagio, che riescono ad incarnarsi con naturalezza a quella sorta di imprendibile felicità negata, e ad esse si richiamino: l’accento, il contrappunto, la matrice e il significato della Sua scrittura. E in questa direzione, suppongo, Lei stia trovando il più grande apprezzamento nel rapportarsi ad un pubblico più vasto, oltre che a una critica più esigente, ottenendone l’attenzione e l’ascolto che merita. Una stratificazione profonda fatta di malinconie, maturata -a mio parere- al fuoco del distacco, come ebbe a sostenere Antonio Piromalli nell’interessante prefazione al Suo L’aire de Broca (1993), nel quale la nostalgia dei sensi che diventano sbiancati e in cui si era scesi in solem et pulverem la fa da padrona sul dramma inquietante delle occasioni mancate. Vi è in questa Sua «parola» modulata, permanente e anche lenitiva che si adegua ai mutamenti e alle attese che cadono, finché si giunge all’ assenza, a un’altra estraneazione, a un’altra lucidità ragionata, coinvolgenti e ben salde, come in questo Suo: “un’altra stagione germina | il tempo, senza filigrane”. Appaiono sfumature, ma si tratta di concetti più sottili per esprimere nelle ultime grandi liriche la perdita dei sogni e il “sorriso che sfuma”. Alcune poesie toccano vertici davvero alti, il senso sacro dei valori umani sembra tradursi in sofisticati meccanismi di relatività, dentro i quali la parola resta ammutolita o tronca e ove impianta le sue nullificanti ipotesi l’istanza oggettiva di quell’assenteismo, assediante che si manifesta in immagini diffrante, in nostalgia dell’incompiuto, nell’inadeguatezza che incombono in figure trasparenti, quasi evanescenti, o sul punto di scomparire, tranne in seguito, scoprirsi esiliate e defraudate da lacerazioni, da escoriazioni che sono sempre pronte a ferire. Il Suo maestro è Montale (se mi consente di fare un paragone di affinità elettiva), la Sua stagione aulente è la fanciullezza, il Suo momento fecondo ristà nella convinzione necessaria del distacco dalle cose materiali, un’atarassia che consente una memoria malinconica di fondo, con le sue crepe, i suoi malesseri, le cadute inevitabili in cui la dialettica si fa serrata e il limite estremo è valicabile nell’ottica di un coinvolgimento pensoso, pur se l’occasione può apparire un trobar clus ostinato per tutto ciò che in modo persistente condanna al buio isolamento, in questo deserto di oscurità che è il mondo. Un male di vivere di montaliana memoria che però trova il suo estuario nel deflusso di una parola amata, cercata e sofferta fin nelle più intime pieghe, attraverso una fede che l’assolva:”oggi è tanto se il giorno smaglia rughe. | E’ qui che a fiotti ti rapina la morte, | qui è il tempo del piombo e della rosa.” (Il senso è altro). Mi pare che vi sia infine in questa Sua ultima raccolta di versi, la padronanza di un verso fatto a misura di crudezza-nudità non esibita fino in fondo, ma che fa la differenza, per quel grado superiore di trovare un esito di minor turbamento nel clima dell’irregolarità poetica di oggi, fatta di «ipernovità» che stravolgono certi ismi. Un certo equilibrio si nota nella Sua poesia ed è quel ritorno alle regole, al linguaggio convenzionale, naturalmente rinnovato e reso nella sua fluttualità etimologico-innovativa del post-moderno, che ridiventa necessità di proporzioni, di bilanciamento, di forza; parola che traduce la progettualità armonica, senza rimanere vittima dell’eccessiva sintomatologia un po’ maldestra di certa avanguardia. Scorrendo i Suoi versi si ha l’impressione di trovarsi in un clima diverso, quasi di sospensione fra la ragione dello strazio e il suo superamento. Una tensione che oppone la necessaria resistenza al male del mondo, e che Lei rende con estremo controllo, scalpellando qua e là gli accenti più traumatici della Sua vicenda privata, e in ciò ravvedo il dominio artistico e il sapore dolceamaro dell’esistente nella dimensione pragmatica del quotidiano.

Proprio sul terreno sintattico che in quello d’ordine tecnico-espressivo, la Sua poetica risulta autonoma, sebbene inerisca, pur con le dovute incidenze, ad aspetti e suggestioni della poesia meridionale del Novecento. In queste geometrie di pensiero emergono i temi di fondo di gran parte del malessere contemporaneo, in una sorta di saggezza occhiuta e ironica che guarda dal palcoscenico della vita, la stessa fuggire, dileguarsi, a cominciare dalla poesia alta, che passa da Quasimodo, Cardarelli, Gatto etc. Si tratta quasi sempre di indagini e letture rigorose (ri)visitate da una coinvolgenza che da innocente diventa oculata, smaliziata, in una dimensione di error aequivocus ineluttabile, o del declino di un immaginario che in cambio presti la parola al suo sgnificato più autentico. Lei ha saputo inserirsi in un progetto di sperimentazioni multiple senza perdere di vista la regolarità cantabile che Le è congeniale; l’orchestrazione armonica del dettato le è necessaria a riconvertire il fattore primario del Suo estro creativo in segno unitario della ragione pensante, senza nulla togliere al criterio discernitivo dell’interno scavo psicologico. Pur nella frattura più o meno palpabile della dissipazione o del dolore, il Suo pudore è fatto salvo dalla libertà del cuore, che pervade il silenzio e ne fa vibrare i pensieri, le emozioni. Quell’ assenza di cui è permeata la Sua pagina non è disertificazione o estinzione , interloquisce nell’ordine degli eventi a una rara e impalpabile relatività di rango che è la poesia. Ne consegue una personalità evidente, una consumata estraneità alla condivisione di stilemi arbitrari di certa letteratura dell’ultima ora, che danno al suo linguaggio lirico la bellezza e l’eleganza del processo da Lei già avviato, che è l’avvenire irrinunciabile della palingenesi della vita.

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