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19 marzo 2014 3 19 /03 /marzo /2014 09:34

LETTURA DI TESTI DI AUTORI CONTEMPORANEI 

di Nazario Pardini, Ed. Writer Milano, 2014, pp.776

 

di Ninnj Di Stefano Busà

 

 

Si tratta della figura di un grande esegeta del ns. tempo, che ci presenta un lavoro impegnativo su vari autori da lui trattati e analizzati.

Inaspettatamente, da par suo, Nazario Pardini ci presenta un lavoro certosino: quasi 800 pp di pura tecnologia critica; un grande lavoro di ricognizione morfologica dei testi assemblati, che sembrano pietre miliari di un progetto a più lunga scadenza della pagina letteraria di questo fine secolo.

Un documento storico di grande rilevanza, quello che ci accingiamo e recensire.

Pardini in questo lavoro di (de)strutturazione e ricomposizione ne è il regista, la personalità più avvertita di una pletora di elementi che da lungo tempo si presenta al più grosso pubblico con riferimenti validi e circostanziati.

Nessuno dei selezionati è l’ultimo della classe: sfilano nomi di un certo rilievo, direi quasi autorevoli nella loro grande intellettualità.

Il critico li inserisce in un filone per soli esteti, in una posizione, la sua, che definire superlativa è poco.

La sua presenza è preponderante rispetto al lucido e concettuale criterio di abbordaggio e d’identificazione.

L’indagine esplorativa è sempre ricca e sapiente.

Si rivela un intelletto fertile che sa intuire epifaniche consonanze con gli autori prescelti.

Ha assembrato autori più disparati, senza che ne venisse meno la validità del testo.

Ha saputo mettere insieme il loro humus culturale, attraverso una ricostruzione programmatica e lessicale d’ampio spettro:

credere nella vita vuol dire accettarne anche il suo dolore” vado continuando a dire, e me ne convinco sempre di più perché: la vita è la distanza tra il grido e la ferita”.

Anche Pardini conosce lo stesso dolore del mondo, quello che condivide con ciascuno di noi e se ne fa interprete, è in grado di cogliere la drammaticità del progetto esistenziale.

In questa rappresentazione così vasta e variegata ha saputo  menzionare come un fatto logico e naturale del vivere, l’eterno messaggio del dolore.

Lo stile, soprattutto nelle prefazioni alle opere, è carico di quel pathos che da sempre contraddistingue il suo linguismo. Un patrimonio culturale acquisito in tanti anni di impegno didattico, in numerose esperienze letterarie, in strategie di scrittura di notevole validità.

La sua lunga militanza in poesia e in tutte le forme dell’esegesi ha formato la sua memoria e l’ha impregnata di una profonda verve scrittoria, mai sentenziosa né asettica, ma sempre espressiva e lucida.

Una capacità dialettica che lo fa un grande regista dell’animo umano, una delle personalità più aperte e progressiste: tra le più preparate.

Il testo ne riscopre di volta in volta la libera interpretazione dei segni che, il rigore e la bravura di un poeta sa costruire sui modelli di una sorprendente classicità e con riferimenti di lettura che solo Pardini sa approntare.

 

                                                                                                     

   
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15 marzo 2014 6 15 /03 /marzo /2014 08:44

 

Prefazione di Nazario Pardini

Soltanto una vita

 

Un grande mélange di cospirazioni naturistiche e di intrighi che mai si allontanano da una verità, specchio dei nostri giorni.

 

Nuova avventura letteraria per Ninnj Di Stefano Busà: per la prima volta si presenta al suo pubblico in veste di narratrice, con un’opera dove si riversa tutto il sapere, tutta l’immaginazione, e tutta la visione di una realtà sociale e ambientale poeticamente vissuta e ri-vissuta, condita con tanta generosità emotivo-esplorativa, di cui la scrittrice ci ha dato forti connotazioni nelle plurime realizzazioni letterarie e poetiche. Qui si tratta di un romanzo, il primo della Busà: ma è come se alla sua prima prova lei facesse il bang.

Si tratta di un romanzo pregevole, in cui l’analisi dei sentimenti umani s’intreccia con lo scavo psicologico di un’esemplaree rara competenza letteraria, che possiede una carica emotiva singolare; un grande mélange di cospirazioni naturistiche, di panorami mozzafiato, di forze evocative, di scavi psicologici,e di intrighi che mai si allontanano da una verità, specchio dei nostri giorni. L’opera si apre con un quadro da schermo tridimensionale di sperdimento panico; un tuffo in un oceano che farà da base erotico-cromatica a tutta la vicenda:

"Dopo la curva, sull’altro versante, l’oceano si apre improvvisamente, come una valva sul fondale lussureggiante di un’immensa esplosione di luce.

L’ora, illuminata già dalle prime avvisaglie d’alba, appare col suo splendido manto arabescato di rosa tenue e oro ».

Già il lettore è messo in guardia. Percepisce fin da subito l’eleganza, e la forza evocativo-linguistica di un’autrice che sa trattare la parola come argilla, plasmarla per captare l’animo,

la mente e la sensibilità di chi partecipa alla scena. Un momento prodromico di grande rilevanza: l’antiportasu un “altrove” equivalente alla carta di identità di un’autrice

che da una vita lotta a tu per tu con la parola per renderla adatta a tradurre un’anima infinitamente vasta e infinitamentedisponibile verso plurime esperienze di perspicua validità

umana. La scrittura si fa possente di intuizioni immaginifiche.

E ci si imbatte subito col personaggio principale: Julie. Personalità manageriale, colta, affascinante, attiva, generosa, che dopo un rapporto di grande conflittualità con Paul, infantile, complesso e difficilmente gestibile, incontra George. L’incontro assume contorni di sapore odissiaco. Da quel momento la vita ha senso, profondità, valenza, i due vivono l’incontrastato legameche li confonde, li disorienta, ma si fa tempio mai visitato da altri,

le loro anime si trovano in un lucernaio d’amore che è viatico di luce per il loro percorso. Una storia di grande passione, di un’intensità che li fa divenire una sola entità, non più duali: «

Carne esangue si sentono rimescolare in un piacere furibondo. La sessualità

è perfezionata tra loro da un visibile esempio di coinvolgenza intima. Un’imprenscindibilità vulnerabile, di fuoco infiamma la loro pelle, li stringe in una complicità emotiva smaniosa e ineluttabile ».

La vacanza da incantamento, dal sapore edenico, sembra esorcizzare il canto della rinascita, una sorta di bagno purifica

 

tore che li porta a scoprire fino in fondo all’anima, quell’aspetto

trascurabile dell’essere umano che si chiama “

amore” in cui l’anima si eleva, conquista l’essenza pura della ragion d’essere. Vi sono scavi di riflessioni,

lectio magistralis di una puntualità e validità ineccepibili- con quei tocchi di eleganza che concorronoa delineare un ambiente raffinato e signorile, ma anche

vastissimo di movimenti, di azioni, di congiunzioni sensoriali, che arrivano a contemplare la sessualità come un fatto perfettibile, sublimativo della fisicità umana. «

 

Ogni fibra del loro corpo vibra all’unisono, ogni bracciata in quel liquido azzurro,

immersi nel tepore di acque placide, è un inno al creato. In quella natura che fa da sentinella all’anima e si stende sovrana, con quella percettibilità che li cinge, fin quasi ad

abbracciarli, i due... ».

Opera pulita, chiara, propositiva; cresciuta su baluardi di sani principi, dove alla fine, quello che conta veramente sono isignificati della famiglia, della fedeltà, dell’amore; un’opera

che va certamente controcorrente considerando i disvalori che, spesso, vengono propinati dalle letture di poca pregevolezza prese in considerazione da case editrici cosiddette “grandi”.

Un romanzo pieno, zeppo, colmo di vita e di bellezza. Bellezza narrativa e sostanziale. Qui, la forza evocativo-descrittiva della Di Stefano Busà. Una forza che trae la sua linfa da una storia di ricerca, di abbandoni e di rinascite; di gioie e di dolori. E tutte si concretizzano nel dipanarsi delle vicende; nel succedersi des accidents che sono l’esistere di ognuno. Con una profonda differenza: che qui c’è la mano di una scrittrice che sa trattare la parola tenendola ben stretta ai fili dell’anima, la sa condensare quanto basta per avvicinarla al sentire del lettore, farlo quasi protagonista. Una parola che contiene gli impulsi emotivi del vivere, earmonizza, o stride di fronte a certi avvenimenti che tradiscono

l’amore, i buoni sentimenti; diciamo pure vicende di un

umanesimo rinfrescato da una modernità trattata con eleganza e stile.

Momenti di alta, vera poesia, di immensa vicissitudine umana, che una poetessa come Ninnj Di Stefano Busà può cogliere e trasferire in qualsiasi genere di scrittura. E, in particolare,

in quella che tratta di una società in decadimento con tutte le sue sfumature conflittuali, contraddittorie e limitative. Con figure altamente simboliche ed emozionanti, l’autrice sa sola parola fuori posto, non un sintagma, non un accento.

Tutto è regolato da una scuola di sofferenza e di pietà, una lectio vitae che consiglio di leggere al lettore più accorto, perché possa provare emozioni forti, descrizioni anche sensuali in cui si trovi a testimoniare la grande potenza dell’amore. È qui che s’incontra la vera autrice, in una prosa poetica di grande effetto suggestivo, di sostanza e potenzialità creativa. Con figurazioni mai oziose, ma sempre intonate a un procedere,

a una diegesi, che, non di rado, assume configurazione poematica; soprattutto quando si tratta di puntualizzare quei tratti dell’animo umano che presuppongono una grande capacità analitico-psicologica; quando si tratta di pervenire a degli assunti che sono i pilastri dell’essere; quando si tratta di delineare l’armonia dell’universo, come nell’atto erotico, unico e irripetibile di un amplesso. Quell’apprendistato che l’autrice ha esperito, ha istruito in un percorso delusioni, dolori, e infine gioie. Gioie che possono maturare solo dopo un lungo cammino, quando l’anima raggiunge la vetta della quies estetica, e se non dell’atarassia, almeno della serenità. Ed è così che certi contenuti di infinita rilevanza si possono tradurre in massime, in prose poetiche, diciamo, per nitidezza verbale, ma soprattutto per una visione quasi ariostea del

mondo e del suo andare che matura nel corso degli anni. Un momento di alto spessore lirico-memoriale che ci avvicina sempre

di più a quella visione eraclitea del tempo e del suo fugace correre che sembra tracciare un percorso sotterraneo nel romanzo fino a costituirne motivo di connessione e compattezza.

La trama del romanzo è avvincente, ben omologata, senza vuoti; le pagine scorrono veloci.

Ogni descrizione è finalizzata a rese psicologiche di eccezionalevalenza. Il carattere dei personaggi spicca chiaro e ben delineato. I dialoghi sono incalzanti. E la natura coi suoi squarci di cielo, di terra e di mare accompagna attenta il dipanarsi della storia con colori ora tenui, ora vivaci, ora brumosi in funzione non tanto descrittiva, quanto introspettiva. Questo è un romanzo come pochi, ha l’aria di essere il bestseller della prossima

estate, quando si comincia a leggere non si può più smettere di farlo.

Ci prende l’anima, ci si sente dentro la storia, nella trama fitta degli avvenimenti che commuovono. Si chiede scusa al lettore per aver sottolineato pagine

memorabili, sentimenti e visioni, adattamenti riepilogativi diuna vita, che vanno evidenziati per la potenza evocativa del messaggio. L’intreccio va avanti rapido e avvincente, suasivo e trascinante. Si legge tutto di un fiato. Il finale non lo rivelerò, anche per non togliere il piacere della lettura al fruitore. A me tocca invece dire che la grande editoria dovrà, sicuramente,

porre attenzione a quest’opera pregna di vita e di creatività; di problematiche sociali e ambientali attualissime. I personaggi sono delineati con tale realismo visivo, da darci l’idea di essere dentro un film in proiezione. Sì! si dovrà porre attenzione a questo romanzo da parte di certi editori alla scoperta del best seller. Perché qui c’è un valore aggiunto inpiù: la penna di una grande poetessa che da una vita offre tutta se stessa alla ricerca del verbo e dei suoi innesti per trame ricche di pathos ed energia creativa. E difficilmente certa prosa dioggi riesce ad avere la potenza creativa della poesia. A voi la lettura perché vale più saper leggere che saper giudicare. Noi possiamo solo riportare la frase emblematica del finale; conclusione che ha tanto della filosofia umana della scrittrice. Un leitmotiv che lega le vicende come lo fa un tema musicale di sottofondo in un’opera lirica pucciniana: « Non passi per troppo mieloso il concetto che Dio è la fonte, noi siamo la gola riarsa: il nostro limite è la sete inestinguibile, impetuosa e inarrestabile, abbiamo bisogno di lui per dissetarci. Siamo soltanto una vita, nient’altro... ». Credo non vi possano essere espressioni più immortali.

                                                                                          Nazario Pardini

febbraio 2014

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10 marzo 2014 1 10 /03 /marzo /2014 13:03

IL FRAMMENTARISMO LIRICO DI LEONARDO SINISGALLI

 

di Ninnj Di Stefano Busà

 

Leonardo Sinisgalli (Montemurro 1908 - Roma 1981) poeta e ingegnere, lavorò per la grande industria del suo tempo (Pirelli, Olivetti); fu fondatore e direttore fino al 1958 della rivista: Civiltà delle macchine.

Il suo lirismo di riferimento fu l’ermetismo, allora in auge, che adottava una sorta di formula-letteraria oscura e chiusa, quasi volutamente criptica, diffusasi in Italia a partire dal 1911, quale rappresentazione di una tipologia lirica di difficile interpretazione, della quale gli ermetici enfatizzarono caricandola di grandi significati, una categoria lirica di grande ricerca introspettiva, che introduceva un lirismo misterioso, oscuro con significati nascosti, contrassegnato da un sovraccarico linguistico ostico e incomprensibile, dal cui impatto riemergevano atmosfere, espressioni, connessioni di modificazioni testuali di un linguaggio inquieto e smarrito, insieme ad una eco immaginifica molto elaborata e chiusa in sé. Tra i più importanti si segnalarono: Montale, Ungaretti, Quasimodo e molti altri grandi interpreti, fino ai ns. giorni (compreso il contemporaneo Luzi).

Sinisgalli in giovane età fu personalità molto dinamica, divenendo con l’avanzare degli anni e gli acciacchi della vecchiaia, un altro da sé stesso: uomo intimorito e insicuro, avvilito dai suoi malanni e dalle sue limitazioni fisiche, che lo condizionarono a tal punto da indurlo ad un frammentarismo lirico che quasi lo ha obbligato ad adottare schegge di pensiero, rivelandolo ad una parcellizzazione che ne mostrò marcatamente i frantumi di un discorso lirico disorganico, in alternativa e in sostituzione ad un linguaggio ben più articolato e completo, dal punto di vista letterario, quale era stato edotto e formulato negli anni più giovanili.

Per sua stessa ammissione, fu sorpreso, in maniera devastante, dall'insorgenza delle sue condizioni fisiche, che gli minarono la salute in modo irreversibile. La sua operosità subì un arresto riguardo la deambulazione a causa di una condizione cronica di artrosi e non essendo più in grado di deambulare, era solito starsene a guardare nel vuoto con grandissima disperazione e rimpianto negli occhi e nell’anima.

La nostalgia del passato, la perdita della moglie furono le cause scatenanti, le più designate a fare di lui un poeta ripiegato in se stesso, un piccolo relittuale arto-fantasma di cui le limitazioni motorie avevano innescato sempre di più la visione della morte, del compimento, del declino rovinoso: un tuffo nel passato e nei ricordi non lo salvarono purtroppo da un’inquietudine di fondo che lo salvasse da una visione pessimistica della vita, un mal di vivre intensamente soffocato dall’inagibilità di pensiero, dal tormento e dalla solitudine che lo attanagliarono negli ultimi anni, riducendo le sue frastagliate capacità mentali.

Lo stato d’animo si faceva ogni giorno più deluso confinandolo alle pareti domestiche, senza più l’opportunità di sognare, non soltanto di deambulare, muoversi, passeggiare liberamente.

La vita a volte ci riserva incoerenze e limiti, ci mette davanti situazioni paradossali a cui è difficile sfuggire. Ci si sente in trappola: deve essere stata questa la sensazione di “limite” imposto alla sua mente, una sorta di arresto che lo portò direttamente al senso della fine imminente.

Quasi improvvisamente infatti lo aveva raggiunto una vecchiaia precoce che, soprattutto dopo la morte della moglie, e il declino delle sue aspettative di vita, gli fece apparire la realtà circostante molto lontana dai desideri di felicità: luoghi e tempi gli apparvero molto decomposti e appannati, affievoliti da un annebbiamento delle idee...quasi come se gli oggetti, i soggetti, le cose piccole o grandi, gli fossero divenuti sfumati, estranei, eterei, quasi irreali, dentro un alone nel quale non riuscì più a cogliere emozioni, suggestioni, che emanavano improvvise, e che egli non riusciva, se non in minima parte, a controllare, impossibilitato com’era a connetterle, a comporle nella loro determinatezza e componibilità unitaria.

Fu molto versato anche all’indirizzo teorico-sperimentale le cui opere di maggior successo riferite al periodo più giovanile furono: Quaderno di geometria (1936) a Furore mathematicus (1950), Calcoli e Fandonie (1970).

Dopo la morte della moglie Giorgia, avvenuta nel 1978, il poeta subì una violenta accelerazione del suo malessere, la dipartita della compagna della sua vita sembrò peggiorare la situazione organica e intellettuale del poeta, che ulteriormente avvertì lo schianto e il lutto con l’aggravarsi repentino delle sue condizioni  di salute;  venne preso dallo scoramento, prostrato da una fortissima e ostinata solitudine e da una forma di artrosi accompagnata da pessima circolazione, per le quali gli fu impossibile ogni movimento autonomo: se ne stava come in attesa della morte fisica, una sorta di atarassia lo aveva aggredito: se ne stava molta parte della giornate a controllare il vuoto da cui potesse giungere la signora in nero con la falce in mano: “Ora io non guardo che un punto bianco/ su una lavagna scancellata” scriveva, dando la sensazione profonda di tutta la sua desolazione,

A quel punto la poesia per lui è off-limit, disgiunta dalla realtà quotidiana gli divenne quasi astratta, avvertendone ancora di più il disagio e la grave perdita della connessione intellettiva, che non va più di par passo col pensiero, non risulta più allineata all’equilibrio logico e al sillogismo di un linguaggio ben articolato e completo anche simmetricamente, oltre che linguisticamente.

Ora, in età avanzata gli divenne sempre più irrisolta, quasi irrangiungibile e più lontana la coniugazione alle facoltà mentali, la coordinazione si fece sempre meno vivace e più precaria.

Il verso non riusciva a fluire in maniera adeguata, gli appariva sempre più slegato e discontinuo dai fatti reali, dalle circostanze, dai tumulti del cuore e non emetteva più quella luce che in poesia viene a determinarsi, come segno di vita, di energia, di luce: si trattava per sua stessa ammissione di registrazioni mentali viziate, flash estemporanei che non emettono suoni, episodi esauriti, residui di un frammentarismo già ridotto all’osso, legato solo dalla presenza di un pensiero malfermo, che mal si adatta ormai a farsi segno di un’attività ispirativa, risultando sempre più disgiunta, discordante, senza connessione logica, come piccoli pianeti vaganti intorno ad una entropia che non conserva i tratti principali  di un’armonia cosmica, tante piccole, liquefatte visioni microscopiche e riassuntive di un suggestionamento quasi d’induzione, senza alcuna visione di luce, vagolanti nella semioscurità del proprio vagheggiamento senile.

Negli ultimi tempi della sua vita, Sinisgalli non fu più in grado di scrivere: la sua ispirazione era andata perduta, viziata.

Si trattava, come affermava il poeta, di lacerti legati soltanto da un concetto virtuale di poetica. Fu dominato dal senso della finitudine mortale con incapacità di intravederne anche i motivi nostalgici ed evocativi. Il poeta non ne era più ispirato, si mostrava incerto, gli si confondevano le immagini nella mente: pertanto affermò: “La vena s’è ridotta a un filo,/ il solleone la strozzerà. / Bevo le ultime gocce / ancora sapide di neve. / Ce ne vuole per riempire / la cavità delle mani”.

Incrocia il pensiero della morte quasi come un’ossessione; una forza resa sterile è fortemente versata al pessimismo più cupo prende sempre più forma e significato.

Intravede come luogo di rasserenamento il piccolo cimitero di paese, quel senso di pace, si può trovare solo tra i cipressi e il silenzio, accanto ai propri cari che lo hanno preceduto, il solo conforto per Sinisgalli lo trova in quel senso di atarassia che viene dalla stanchezza senile, dalla mortificazione fisica, dagli acciacchi e dalla rassegnazione.

Scrisse: “Il campo delle allodole/ è a fianco del cimitero/ in una distesa di stoppie/ senza alberi. Si vedono in aria/ ruotare forsennate/ e col becco sdrucire veli di luce. / Poi ruzzolano per contendersi/ un chicco di grano”. L’idea del cimitero non gli apparve ostile, anzi fomentò in lui la distensione e il più sereno approdo, ne intravide una nicchia in cui potersi rifugiare in solitudine eterna.

Lì fu sepolta la madre. Di lei scrisse “è ricordata da una scritta sbiadita /su una lapide. / Trentatre anni / sono trascorsi da quando la composero / sul letto. Per la valle passavano soldati in fuga”. I morti sono sempre vicini al suo quotidiano, lo attrassero, furono gli interpreti principali delle sue giornate tenebrose. “Mangio, bevo, leggo, scrivo/ in comunione con i morti. / Anche la latrina/ ha una piccola finestra/ che inquadra le croci sulla collina. Dalle figure retoriche, e dal senso diffuso della morte, gli oggetti sembrano prendere i caratteri dei motivi montaliani.

Montale fu rigido osservatore della realtà, in cui seppe leggere il male di vivere di ben nota memoria. I correlativi oggettivi del Nobel riflettono il mal de vivre più “universale”.

Invece Sinisgalli legò il “suo individuale “mal di vivre” al suo status e ne intuì drasticamente il disagio derivante dalla “fine” della vita, e quindi delle illusioni, dei desideri, di tutto ciò che vi è di più bello in essa.

In Sinisgalli la morte fu considerata l’opposto della vita, la sua negazione, secondo il suo pensiero: l’esistenza consegna a piene mani sofferenza, che la morte cancella in una sola volta con l’annullamento dell’uomo. Inoltre nel mondo non vi è una sola morte, un solo morto, né due, né dieci: vi è un solo destino per tutti; la morte appartiene alla vita di cui l’inizio e la fine coincidono.

Si tratta di una spiaggia a cui si deve approdare, nostro malgrado, un veleno che bisogna trangugiare anche se riluttanti. È la legge naturale del mondo, il più grande tormento, che riguarda, appunto, tutte le creature viventi, che hanno una personalità, un nome, qualcosa da mostrare come segno del loro passaggio su questa terra.

Ecco, allora che morire è come perdere la propria identità, cioè la propria individualità come persona. Succede come quando si stacca il nome dall’oggetto: da una targa, da una cornice, da una lapide. Con la perdita del nome stesso, andrebbe persa apparentemente ogni memoria, perciò viene rimessa sulla lapide a futura memoria, che altrimenti il tempo e l’incuria cancellerebbero..

La morte sinisgalliana ha inizio con la vecchiaia e si presenta come perdita in sé, del proprio “io” più profondo, che è già una forma di morte in vita, perché è come uno sbiadirsi, uno scomparire dalla visuale umana.

Sinisgalli scrisse: “I nomi si sono scollati / dalle cose. Vedo oggetti / e persone, non ricordo / più i nomi. A piccoli / passi il mondo / si allontana da noi, / gli amici scendono / nel dimenticatoio”. Non vi può essere indifferenza, poiché, trattandosi della perdita di esseri viventi, c’è partecipazione dolorosa al lutto. La morte è uno strappo inesorabile, una lacerazione cui si cerca di resistere fino in fondo, senza riuscirci mai.

La fontanella si sforza di conservare la sua vena d’acqua.. questi versi ne sono una prova: “Bevo le ultime gocce / ancora sapide di neve. / Ce ne vuol per riempire / la cavità.”
Quei lacerti che escono, quasi in un processo di automatismo induttivo, compongono le ultime liriche di Sinisgalli, quasi come se originassero da ebbrezza o alienazione, da una scomposizione mentale che neutralizza le cose e li sfuma, li cancella.

Forse solo l’abitudine alla poesia li salva dall’ossidazione, dall’annientamento.

Le liriche si faranno sempre più brevi, ridotte, a volte, a soli due o tre versi, da sembrare flash, annotazioni semplici, quasi monche di un concetto, non più componimenti musicali, armonici, composti con oculata visione lirica, ma solo lacerti, schegge vaganti di pensieri smarriti, senza soluzione di continuità, molto elusivi e

talvolta anche evasivi, dispersivi e comunque discontinui, come sequenze sconnesse, un pò diafanizzate, inframmezzate e in parte confuse. Una sola via c’è perché si possa morire meno disperati e con l’illusione di non scomparire del tutto soli e abbandonati.

La soluzione sta nel è ricongiungersi con le persone che ci furono care in vita, una chiave di lettura quasi foscoliana, (...essere ricordati da quelli che restano era nel concetto del grande Foscolo come un rinnovarsi alla vita, quasi un “non” morire, o quanto meno un ritardare la fine).

Anche Sinisgalli ci indica una strada per essere ricordati, solo così la fine dell’uomo apparirà un “destino” più soft, più stemperato dall’alienazione disperante, dalla solitudine.

“Qui verrò a morire – aveva promesso a sé stesso – tra i ruscelli / le vigne le pietre / a forma di martello di cuore, / le pietre che chiamano “dinamiche”/ perché sono state limate / nei millenni”. E fu così. Mantenne la promessa che aveva fatto a se stesso e che aveva sempre desiderato.

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10 marzo 2014 1 10 /03 /marzo /2014 10:50

LA REALTA’ DEL DOLORE in Carlo Emilio Gadda

 

di Ninnj Di Stefano Busà

 

Nasce a Milano nel 1893, muore a Roma nel 1973, si laurea in ingegneria ed esercita la professione sia in Italia che all’estero dove soggiorna per alcuni anni. In qualità di ufficiale degli Alpini prende parte alla guerra (1915/1918) ed è lì che gli scatta l’impulso dello scrivere, la sua vocazione di narratore infatti prende l’avvio con la pubblicazione della prima opera: Le bizze del capitano in congedo (1918) al quale segue il romanzo: Racconto italiano di ignoto del Novecento (1924); La meccanica (1926); Novella seconda (1928). Quasi tutte queste opere risultarono come lavori preparatori allo scrivere che costituiranno più avanti nel tempo, il tema e il profilo di ricerche filosofiche a posteriori: La cognizione del dolore (1963) che secondo il mio giudizio costituirà un’opera fondamentale nell’iter letterario dello scrittore milanese ne delinea la struttura, le linee essenziali e l’indirizzo culturale che più avanti verranno a dare la svolta del suo operato con l’altro romanzo: Quer pasticciaccio  brutto de Via Merulana (1957).

In anteprima esce al pubblico nel 1946 in 5 puntate sulla rivista: La Letteratura, pubblicato oltre dieci anni dopo, nel 1957, da Garzanti.

Con quest’opera a Gadda viene decretata la notorietà, per così dire, gli viene riconosciuta ufficialmente dalla grande critica, la capacità di abbracciare la narrativa da un punto di vista più acuto e ingegnoso, idoneo a rappresentare il disordine e i paradossi del tempo. Ciò, anche per il fatto, che esercita a Roma presso la RAI la professione di giornalista, la qual cosa, da sempre, ha regalato la visibilità. A mio avviso (e a quanto pare non solo mio), la sua opera migliore s’identifica con La cognizione del dolore; nella quale vi si riscontra una contaminatio diversificata, una sorta di miscellanea di stili, di virtuosismi sintattici, di barocchismi oltre che l’utilizzo ai vari livelli di scrittura, di taluni echi manzoniani allora in voga, il dialetto popolare, termini arcaici, obsoleti, e altri di pura invenzione, vocaboli desueti, che però risultano fondamentalmente utili nelle stesura del romanzo. L’autore nella sua scrittura così articolata e frammista volle rappresentare la complessa realtà di quei tempi, insieme a dati psicologici che per essenza e comportamenti costituiscono la società del momento storico: percezioni, suggestioni, allusioni, riferimenti che determinano l’involucro sorprendente e originario di una scrittura multiforme quale quella di Gadda, lasciano scoprire l’eco riflettente e comportamentale di un tempo (fin da allora fortemente compromesso) che ne delinea un linguaggio moderno attraverso l’analisi degli orrori, dei compromessi e inganni, della stupidità che disgustano e deludono, epperò, ne riflettono appieno l’asse portante di una società inconcludente e caotica, rivelatrice di un malessere che ne determina la complessità dell’alter ego, malamente insubordinato e reso estremamente insicuro e variamente allocròico  dal sistema malato del dopoguerra. Si tratterà pure di una narrazione all’apparenza comica, ma sovraccarica di richiami manzoniani, d’infiltrazioni ingarbugliate e di costruzioni linguistiche di varia natura.

Soltanto che qui Gadda riflette l’intricata matassa di taluni atteggiamenti anche ridicoli ancor più che comici, rivelando una condizione drammatica di esistenza, quasi inamovibile e deteriore.

Seguono altre opere come La Madonna dei filosofi (1931) e Il Castello di Udine (1934). Successivamente in Adalgisa riprende tutti i temi psicologici di astrazione lombarda – il realismo- di ambientazione tardo ottocento strettamente connesso alla sua cultura scientifica, si può dire ebbe molta parte nella sua vicenda letteraria.

L’abbandono dalla città di origine: con prima tappa Firenze  e successivamente Roma, favorisce la sua presa di coscienza di un male più generalizzato che deriva dalle seconda guerra mondiale, con il retaggio di sofferenze, di ossessioni, fobie, contraddizioni private, disagi interiori che si riconoscono in atmosfera di catastrofi e drammi più universali, attraverso il senso del Male, del Disordine babelico e tumultuoso, disorganico della grande vigilia che rivoluziona la scrittura, che già investe la società contemporanea del tempo.

Lo scrittore infittisce le tematiche e le implicazioni di una visuale storica della vita, nella quale s’inserisce una concezione che scava a fondo nello strazio di ognuno, e dall’autobiografismo tormentato  dell’essere umano “individuale” si proietta verso il superamento della sottile linea di galleggiamento che riconduce lo strazio e la sofferenza masochistici del mondo, in un genere di più vasta interpretazione, che già si pone sullo sfondo, proponendo una linea meno baroccheggiante di narrativa, istruendo, dal punto di vista stilistico, la realtà del dolore.

Con Eros e Priapo, Furore e cenere, (1967), lo scrittore Gadda inserisce il filone storico secondo cui dichiara apertamente la sua indignazione e opposizione alla storia tutta, qui s’intenda cronologica e diacronica che si mostra traditrice in tutti i tempi.

A quel punto manifesta intolleranza e opposizione a quella che ritenne corruzione universale. Molto attiva in Gadda fu anche l’attività saggistica: con Il primo libro delle favole (1952); Novelle del Ducato in fiamme (1953); I viaggi e la morte (1958); I Luigi di Francia (1964); Sono noti i numerosi libri di lettere che conservano l’ossatura del suo pensiero e tutta l’ideologia immaginifica e l’essenza intimista del narrato, comprese le amplificazioni più estese dei suoi sviluppi linguistici: Lettere agli amici milanesi; Lettere ad una gentile signora; Lettere a Ugo Betti; Lettere a Bonaventura Tecchi; Lettere a Gianfranco Contini; A un amico fraterno, proposti alla stampa nel periodo postumo alla sua morte 1983/1988. L’editore Garzanti pubblicò in 5 voll, l’edizione completa delle sue opere, diretta per l’occasione da Dante Isella.

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8 marzo 2014 6 08 /03 /marzo /2014 10:16

L’ULTRAISMO di Jorge Luis Borges

 

di Ninnj Di Stefano Busà

 

Una figura importante della Letteratura e della Poesia argentine, Nato a Buenos Aires nel 1899 muore a Ginevra 1986.

Dopo una esistenza alquanto turbolenta e assai travagliata raggiunge l’apice della notorietà come scrittore e poeta

Compie i suoi primi studi nella sua città di origine, per poi trasferirsi  a Ginevra e successivamente in Spagna, dove insieme ad altri componenti scrittori e poeti promuove il movimento d’avanguardia dell’ultraismo. Ritorna nel 1921 in Argentina dove fonda le riviste Prisma e Proa. Il suo stile originale e ricco di notevoli riferimenti culturali gli danno presto la fama, riflettendolo in un clima di fermenti letterari su vasta scala internazionale. Nel 1938 inizia il suo calvario agli occhi, che lo porta ad una quasi cecità.

Il malessere alla vista di cui soffre Borges è un fattore ereditario che si tramanda da sei generazioni. Intanto svolge un’intensa attività critica che lo porta ad essere conosciuto come uno dei più eruditi intellettuali del tempo.

La sua personale visione della vita e della politica argentina di allora, sono di concezione liberale, il che lo porta a scontrarsi presto con la politica di Peron, contro il quale ha firmato il Manifesto.

Per tale motivo e, come si può immaginare, viene esautorato  e destituito dal suo incarico di Assistente Bibliotecario già ricoperto nel ’37. Successivamente alla caduta di Peron ottiene nuovamente la nomina di Conservatore e Direttore della Biblioteca Centrale di Buenos Aires, incarico da cui è costretto a dimettersi al ritorno al potere di Peron.

Si può dire che la sua attività e la sua vita siano state segnate dalle vicende politiche del grande dittatore.

Nella sua attività artistico-letteraria Jorge Borges affronta una cultura filosofica che gli assegna ufficialmente la grande visibilità internazionale, anche se non giunge mai al Nobel.

Il suo stile rigoroso e forte frammisto ad un tono marcatamente evocativo caratterizza la sua produzione e accompagna tutte le tematiche di cui si avvale l’intero svolgimento della sua vasta attività.

Pubblica le raccolte poetiche: Fervor de Buenos Aires, 1923; Luna de enfrente, 1925; Cuaderno San Martin, 1929; Poemas (‘23/ ’58), 1958; El Acedor, 1960; El Otro el mismo 1964; Elogio de la sombra 1060; La rosa profunda 1975, Historia de la noche, 1977; La cifra 1981. La sua produzione poetica è frammista ad una esemplare esegesi saggistico-narrativa che si va ad intrecciare a modelli polizieschi e fantastici di elevata qualità artistica. Pur tra tanta commistione di temi e di una così ampia varietà di interessi, l’opera di Borges appare unitaria e mai slegata dal suo intento culturale più elevato e profondo che fa riferimento alla ricerca del significato dell’esistenza, sempre attenta a cogliere anche i dettagli e le impercettibili anomalie dell’essere, pur sgravato dalle apparenze, meglio sarebbe dire <gravato> dalle molte vicissitudini e contraddizioni che lo schiacciano.

 Nonostante la sua formazione europeista, Borges rivendicò sempre con le tematiche trattate le sue radici argentine, e in particolare "porteñas" (cioè di Buenos Aires), nelle opere come Fervore di Buenos Aires (1923), Luna de enfrente (1925) e Cuaderno de San Martín (1929).

Sebbene la poesia fosse uno dei maggiori interessi dello scrittore argentino, nella sua opera letteraria, entrano quasi di prepotenza: il saggio e la narrativa, oltre la critica che caratterizzano generi che gli valsero il riconoscimento internazionale. Dotato di una vasta cultura, che esercita e intensifica nei numerosi viaggi e soggiorni all’estero, egli seppe costruire un’attività culturale e umanistica eccellente, con la quale mostrò la grande solidità intellettuale attraverso una prosa oculata e severa, che seppe manifestare un distacco talora ironico dalle cose del mondo, dai suoi personaggi e figure, senza per questo rinunciare al suo lirismo di fondo che è di stile evocativo. Le sue strutture morfologico-narrative vanno a modificare le forme convenzionali del tempo, per rimodulare e impostare altri modelli linguistici di più vasto contenuto simbolico, costruiti e impostati sulla base di riflessioni, verifiche, pensieri, comparazioni, allusioni, parallelismi di natura varia. Gli scritti di Borges appaiono come forti  metafore, che si pongono sullo sfondo di visioni metafisico-paradossali, senza mai perdere di vista l’essere umano che si staglia nel panorama di sfondo come interprete di una dimensione più naturalistico-evocativa che ha costituito il suo filone di ascendenza, la matrice più autentica del suo modello culturale, sempre ai più alti livelli.

J. Borges ricevette una gran quantità di riconoscimenti. Tra i più importanti: il Premio Nazionale di Letteratura (1957), il Premio Internazionale degli editori (1961), il premio Formentor insieme a Samuel Beckett (1969), il Premio Miguel de Cervantes insieme a Gerardo Diego (1979) e il  Premio Balzan (1980) per la filologialinguistica e critica letteraria. Tre anni più tardi il governo spagnolo gli concesse la  Grande Croce dell'Ordine di Alfonso X il Saggio. Nonostante il suo enorme prestigio intellettuale e il riconoscimento universale raggiunto dalla sua opera, lo scrittore non fu mai insignito del premio Nobel per la letteratura, probabilmente vessato dalle enormi disavventure di regime, o dalle polemiche che ne vennero fuori a causa della sua opposizione alle dittature. Il suo spirito libero ha manifestato quella certa insofferenza dei Grandi intelletti, che hanno pagato caro il prezzo della loro autonomia e libertà di pensiero.

Da tempi immemorabili essi (cultori dell’ingegno) hanno dovuto trangugiare l’amarissimo calice delle idee non conformi ai regimi, come estreme conseguenze di scelte politiche non allineate e intruppate. 

Nel 1921 viene pubblicato il primo numero della rivista letteraria spagnola Ultra, la quale, come appare evidente dal nome, era l'organo di diffusione del movimento ultraista. Tra i collaboratori più noti spiccano lo stesso Borges, Rafael Cansinos-AssensRamón Gómez de la Serna e Guillermo de Torre che diventerà suo cognato 1928 sposando Norah Borges.

Tutta l’attività di Borges si rivela infaticabile e assidua, nonostante una forma incurabile che affligge da 6 generazioni i più stretti familiari dello scrittore non bisogna dimenticare che la medesima sorte tocco anche al padre  (anch’egli muore cieco) per un fattore di infermità fisiologica che lo perseguitò tutta la vita. Anche il Nostro vive nel terrore, soprattutto, quando venne attaccato da una setticemia infettiva che minò il suo stato di salute costringendolo ad un’immobilità per parecchio tempo, minacciandolo soprattutto di una grave interruzione delle sua scrittura e del suo estro intellettuali. Viene assalito da una visionarietà che intuisce e sfocia in una visione storica come: plagio, falsità, menzogna, parodia universale, che ne sanciscono la fama di scrittore internazionale con le sue Otras Inquisiciones (1952)

Labirintico e tenebroso saggista, Borges si mostra con una linea di freddo trionfalismo nella prosa latina fino all’avvento del Realismo di Garcia Marques. Tuttoggi non si può opinare sull’attività dell’argentino, senza fare riferimenti alla letteratura di Calvino e del più recente Umberto Eco. I quali convergono per esperienze e visioni bizzarre ed eccentriche.

Borges ammette la concezione che tutti gli idealisti esplicitano, la forma allucinatoria del mondo. Però l'uso che Borges fa dei paradossi è una bizzarria singolare essa stessa, una sorta di eccentricità stravagante. Così egli si esprime riguardo al sogno del mondo: "Noi abbiamo sognato il mondo. Lo abbiamo sognato resistente, misterioso, visibile, ubiquo nello spazio e fermo nel tempo; ma abbiamo ammesso nella sua architettura tenui ed eterni interstizi di assurdità, per sapere che è finto"
Bisogna ammettere che tale visione dell’essere e della vita si posiziona infatti in una linea di pensiero e di orientamento “orientale”: si pensi ad es. allo Zen, al Buddismo, situazioni ai limiti del pensiero che sfociano in metafisiche figure, in sostrati di intellettualità trascendente che delineano e si equiparano a grandi linee alla cultura orientaleggiante.

In collaborazione con Bioy Casares, Borges ha scritto: Sei problemi per don Isidro Parodi (Seis problemas para Don Isidro Parodi, 1942), Un modello per la morte (Un modelo para la muerte, 1946), Cronache di Bustos Domecq (Crónicas de Bustos Domecq, 1967). 
In collaborazione con Margarita Guerrero ha scritto: Manuale di zoologia fantastica (Manual de zoologia fantástica, 1957) ristampato poi con aggiunte e con il titolo: Il libro degli esseri immaginari (El libro de los seres imaginários, 1968).

 

 

 

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28 gennaio 2014 2 28 /01 /gennaio /2014 08:03

 

 

 

     Marcel Proust

 

e la sua Recherche del tempo perduto: A’ l’ombre des jeunes filles en fleurs

 

                      di Ninnj Di Stefano Busà

 

Diciamo subito, che nei primi decenni del Novecento la Francia continua ad avere grande seguito in quel ruolo di guida culturale dell’Europa, che ha già impersonato negli ultimi decenni del secolo precedente. L’autore che ha avuto un ruolo preminente per lo sviluppo delle letterature europeiste, per la validità significante dei suoi risultati, per l’influenza, infine, che avrebbe rappresentato per tutta la narrativa europea è Marcel Proust.

Nato a Parigi nel 1871 da famiglia agiata, ma non ricchissima borghesia. Dopo un’infanzia tormentata da un’asma che lo avrebbe condannato per l’intera esistenza, segue assai irregolarmente gli studi.

Più tardi nel 1880 inizia a frequentare i salotti mondani, ricercato per le sue qualità di fine parlatore, i suoi vezzi da dandy, coi quali contribuisce a creare una certa raffinatezza e attrattiva nei luoghi di frequentazione.

Alla morte della madre alla quale era legatissimo, Proust inizia il grande ciclo narrativo: Alla ricerca del tempo perduto a cui  è legata la sua fama.

L’opera è composta da tre parti. La prima parte, rifiutata da Andre Gide, viene respinta dall’editore Gallimard, poi stampata in proprio dall’autore stesso, nel 1913. La seconda: All’ombra delle fanciulle in fiore, presa in esame in questa introduzione, ottiene il premio Goncourt  nel 1919.

Successivamente le altre parti vengono pubblicate dopo la sua morte, avvenuta nel 1922. Tutta l’opera comprendente più di tremila pp, si articola in sette parti e si conclude con una illuminazione che è anche una dichiarazione di poetica: fissare con la creazione artistica i momenti del passato equivale a recuperare il tempo perduto (Il tempo ritrovato).

Pur trattandosi di un’opera estremamente originale, la critica ha indicato per la Recherche alcuni fondamenti culturali della tradizione francese.

Per primo l’entroterra culturale, con una produzione memorialistica e diaristica di tanti autori tra il Seicento e il Settecento che hanno descritto il loro ambiente dal di dentro, con dovizia e ricchezza di dettagli. Proust infatti si mostra molto attento ai costumi del tempo che ne determinano il sapore, il clima, il soggettivismo, le ambientazioni del mondo reale e sociale. La sua attività di scrittore  e frequentatore dei salotti-bene di Parigi si snoda nel periodo compreso tra la repressione della Comune di Parigi e gli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale; egli seppe cogliere in pieno, dunque, la trasformazione della società francese del suo tempo, con la crisi dell'aristocrazia e l'ascesa della borghesia durante la Terza Repubblica francese.

Proust ci dà un'approfondita rappresentazione del mondo di allora e della modificazione sociale del periodo storico cui appartengono le sue opere. L'importanza di questo scrittore è tuttavia legata alla capacità espressiva della sua scrittura che si autodetermina e si sviluppa nella sua potenza narrativo-introspettiva, nelle minuziose descrizioni dei processi interiori, attraverso i filamenti sottili di una psiche legata al ricordo e ai sentimenti; la Recherche infatti è un viaggio nel tempo e nella memoria che si snoda tra vizi e virtù, tra realtà e fantasia, tra aristocratiche dissolutezze e simbolismi filosoficamente compiaciuti di un più “nuovo” sentire.

L’indagine analitica sui suoi scritti ci mostra la sua abilità psicologica di meticoloso e vigile indagatore dell’animo umano. Più precisamente, Proust prende in rassegna i sentimenti, le suggestioni, le emozioni attraverso la lente dei moralisti del Seicento francese, fino a giungere al romanzo psicologico di fine Ottocento.

Inoltre nella sua scrittura si riscontra la filosofia di Bergson, con la teorizzazione del tempo interiore, del “tempus”-rivisitatio-  visto e indagato nella sua essenza (o veste) di Comedia umana, come durata temporale, e infine, tutte le conquiste della poesia francese di fine ottocento, che avevano portato alla valorizzazione delle “corrispondenze” come egli le definisce, ovvero, dei reconditi rapporti tra gli stati d’animo e la natura, tra l’evocativa, analogica assemblee emotivo/psicologica e le connotazioni naturali del genere umano, che si differenziano in ognuno.

Già Bergson aveva parlato di coscienza interiore, cioé di una coesistenza tra il passato e il presente proprio in riferimento alla caratterizzazione dell’essere. Proust ritiene vi siano due stadi, due gradi di recupero possibile della coscienza e ne distingue soprattutto due: memoria volontaria e memoria spontanea.

La prima richiama tutti i dati del passato, pur se in termini logici, senza restituirci sensazioni, suggestioni, sentimenti che in una  determinata circostanza vi appaiono irripetibili; la memoria spontanea (o sensoriale), riferita soltanto a un amarcord dei sensi, si caratterizza come un revival della felicità protetta nell’intimo della psiche: un profumo, un sapore, una musica, un suono, una nota, un tramonto che riportino l’occasionale analogico, ovvero la “casuale” sensazione di un momento cronologico, la qual cosa, sì, ci rituffa nel passato, ma senza riferimento logico: una sorta di <sentire> a distanza ravvicinata, (a pelle), un tentativo di far rivivere impressioni e atmosfere di un tempo andato, di un ricordo sopito o accantonato, (non del tutto rimosso).

È questa la famosa teoria dell’intermittenza del cuore per il recupero memoriale dei sensi, una vera e propria (re)incarnazione della propria identità passata, che diventa sollecitazione dei sensoriale somatico della psiche richiamando in superficie l’invito a ritornare al passato, (apparentemente) tempo perduto, (mai rimosso), che si presenta come un reverie un de ja vu momentaneo, che non ha nulla della cancellazione definitiva di memoria, perché permane dentro di noi, persiste nell’inconscio e, all’occorrenza, riaffiora in superficie, riappropriandosi delle sensazioni provate o delle suggestioni mai dismesse. Proust con le sue opere riprende in mano lo studio della psicologia e la fa rivivere nei suoi romanzi come la trama e l’ordito, che determinarono la vena letteraria del suo repertorio, ma successivamente ne caratterizzarono l’impianto  logico, dopo di lui. Si tratta dunque di un recupero memoriale che interpreta la creazione artistica, come coscienza di sé, trattasi di una forma perfettibile (se non perfetta) di realtà che orienta a quel paradiso (perduto), cui fa riferimento il narratore.

Critici che dedicarono molta attenzione a Proust sono stati i nostri: Giacomo De Benedetti, Giovanni Macchia, Pietro Citati, Giovanni Raboni, Franco Fortini.

Quest’ultimo che fu uno dei critici più accreditati agli studi di Proust ritenne che egli proseguisse in un discorso tutt’altro che lineare, senza ordine cronologico normale, né logico, tra passato e presente, in un andirivieni movimentato, a rembour, e con una narrazione che non segue il ritmo usuale, perché questi passaggi o transizioni creano vere sospensioni, ritardi, intervalli, effetti d’eco e variano continuamente, senza assumere precise connotazioni, cronologie e forzature, tra i rapporti umani e gli eventi. Anche se questo suo stile basato sull’altalenante impiego del tempo/spazio, è spesso rivolto al caos di successioni mnemoniche o sensazioni improvvise, si delinea lucido e acuto, votato tuttavia ad evocare un “sentire”, che obbedisce al sapiente gioco delle “rispondenze”, quasi ad un reciproco integrarsi tra un evento e l’altro, tra un velocissimo sguardo e la parola.

In tutta la Recherche s’incrociano vari piani psicologici. In Proust l’interesse si sposta dal personaggio alla dinamica del gioco, dalla coscienza alla psicologia strategica di un processo retrospettivo memoriale quasi yunghiano, su cui si porranno altri analisti del pensiero: Joyce soprattutto e tanta parte della narrativa del Novecento, che si concluderà col famoso flusso di coscienza. Proust ha ricreato il mondo del romanzo dal lato della relatività immaginifica, dando per la prima volta una matrice connotativa alla letteratura di fine secolo; un equivalente teorico della fisica moderna (E. Wilson). In realtà la Recherche è un’opera assai complessa, una straordinaria e suggestiva discesa agli inferi della coscienza dell’essere, che nel riappropriarsi del meccanismo che introduce ai meandri della complessa macchina umana, ne fa una ricognizione dettagliata, una rivelazione in progress, ricreando il romanzo alla maniera di cui, infine, disporrà l’arte narrativa dell’intero Novecento.

Da più parti ci si è chiesto da dove è venuto questo fortunato titolo, molto azzeccato in verità, perchè è divenuto quasi una locuzione proverbiale della sua scrittura. Pare gli sia stato suggerito dall’amico Marcel Plantevignes.

Nella simbologia proustiana, le “fanciulle” costituiscono un perfetto ed esemplare connubio, tra il mondo turbativo degli elementi esterni e “la felicità sconosciuta e pur possibile nella vita”, attraverso di esse si dipana e acquista splendore e turgore quel mondo esemplarmente sognato, facendo scatenare tutto il virtuosismo dialettico e linguistico proustiano: certi luoghi, certi soggetti, certi paesaggi che sono la caratterizzazione delle Fanciulle fanno emergere nel lettore tutta la stupefazione per la Bellezza della natura.

Esse vengono designate di volta in volta come “uno stormo di gabbiani”, “una luminosa cometa”, “una bianca e vaga costellazione”, “un’indistinta e vaga nebulosa”,”una rosea infiorescenza” etc, insistendo sui dettagli, sulle sottili interconnessioni, sui dialoghi, sulle presenze fascinose e sublimi di Albertine, Andrée, Gisele e Rosemonde.

Balbec è il luogo-simbolo, il teatro (per così dire) delle scene che  i protagonisti della storia si apprestano ad impersonare, ciascuno per proprio conto, attraverso le tendenze, le stravaganze, i vizi e i difetti delle variegate figure.

Lo stesso scenario “marino” ambienta una rappresentazione di quello che, secondo la tendenza artistica del secolo, costituisce la pittura impressionista.  

Credo che queste siano alcune osservazioni che vanno proposte per l’approccio alla lettura de la Recherche.

Proust ha (ri)creato il mondo del romanzo dal lato della –temporalità relativa - , con una ricognizione libertaria e caotica del genere umano e dei suoi meccanismi di difesa (della  psiche), entrando nei labirinti dell’animo come nessun’altro narratore, con le proprie frustrazioni, le proprie insicurezze, gli indugi, le complesse manifestazioni edonistiche dell’uomo,

le parvenze rarefatte e sottili della coscienza, soprattutto rivolte alla fisionomia dei personaggi, al loro labirintismo, la qual cosa li porta ad affinare immagini, a evidenziare e metabolizzare circostanze, episodi e avventure, tali da rievocare e portare alla luce ambienti, persone, stati d’animo, profumi, odori e sapori dell’infanzia: un tempo perduto viene così ritrovato; il resto: l’esteriorità minutamente descritta nei dettagli fornisce agganci per comprendere il difficile meccanismo che entra in gioco nella coscienza dell’essere, quando viene fagocitata dall’esterno.

Vi sono pagine mirabili e fondamentali nell’opera di Proust, in cui egli indaga con stile raffinato e insieme con la precisione di un bisturi la capacità di esprimere le più impalpabili, minute e segrete sfumature del genere umano.

Il suggestivo: All’ombra delle fanciulle in fiore è il terzo titolo della raccolta (1919) e ne rappresenta la tappa essenziale, una sorta di riferimento fondamentale di tutta l’opera. In questo volume sono tanti i risvolti psicologici, gli orli, i nodi, le pieghe,  le dritte e i rovesci, gl’incantamenti che vi si riscontrano.

Ogni avvenimento è scandito secondo le luci, le ombre, i chiaroscuri, i colori, i ritmi delle ore, una sorta di reverie che sa scatenare, alla luce di una lettura accurata e attenta, tutti i sommovimenti della sapienziale e filosofica struttura linguistica.

In tutta l’opera lo scrittore ci dà mostra di sé, del suo approcciarsi ormai ai livelli di scrittura degli autori considerevoli e professionalmente più preparati, un mondo fin lì sognato, (poterli eguagliare!), quasi desiderio inaccessibile, per l’incrociarsi di eventi e accadimenti che segnano la scrittura dei grandi narratori e ne marcano profondamente la vena.

L’entroterra culturale dell’autore si rivelò in grado di sfondare la cortina di nebbia, tale da segnare la sua identità artistica di narratore come pochi altri. Nessun’altro infatti aveva mai scritto in prima persona quanto Proust. La sua vena risulta assolutamente sterminata nei dettagli, nelle piccole, inafferrabili arguzie dei retroscena umani. Le 4.870 pagine de la Recherche potrebbero bastare a far conoscere l’ampiezza della vasta gamma dei sentimenti che albergano nella psiche.

Proust si rivela immenso, penetrarlo è un’impresa non facile. L’astrattezza dei pensieri, delle immagini viene continuamente mossa da una sorta di circonvoluzione cerebrale, con una trama fitta, ma sottile, che dà ampio respiro alle sensazioni, anche meno significative, ve ne diamo es: ...le ragazzine che avevo scorto procedevano leste, con quella destrezza dei gesti che nasce da una perfetta scioltezza del corpo e da un disprezzo sincero per il resto dell'umanità, procedevano leste, senza esitazione né rigidità, compiendo esattamente i movimenti voluti, in una piena indipendenza reciproca di tutte le membra, mentre la maggior parte del corpo conservava quell'immobilità così notevole nelle buone ballerine di valzer”. 

Se letto con calma, All'ombra delle fanciulle in fiore evidenzia tutta la potenza introspettiva e il glamour dell’intero repertorio proustiano, delineandosi come un classico dalle splendide e indimenticabili descrizioni, che il narratore investe di grande humor e più dettagliatamente delineandone le attese dell’alta società francese del suo tempo, avendone individuato spesso le vicissitudini amorose, i gesti, i dialoghi,  e interpretandone vizi e virtù. Questo romanzo apre a sfondi metafisici e filosofici finora mai eguagliati. Ad es. la conclusiva descrizione dell’ultimo giorno vacanziero: “il giorno d’estate ch’ella [la domestica] scopriva sembrava altrettanto morto e immemorabile d’una sontuosa e millenaria mummia che la nostra vecchia domestica avesse liberata con cautela da tutte le sue fasce, prima di farla apparire, imbalsamata nella sua veste d’oro”).

Un’opera come poche, allora, che predilige il dipanarsi della narrazione in mille rivoli introspettivi, e appare (ir)rrisolta, per certi aspetti analogici che guardano ai dettagli, ma pur sempre, senza il frammentarismo in cui si può facilmente cadere. Tutto sembra avvenire come quando si osserva un panorama col binocolo, molto ravvicinato o molto distanziato dall’oggetto in esame, oppure, si capovolge l’immagine che diviene altro da sé: la visione allora prende la forma di un caleidoscopio che guarda al puzzle occasionale, alla realtà virtuale e chiude in un corteggiamento tutte le altre forme e, nello stesso tempo, scopre l’impossibilità di trovare la felicità che cerca nell’amore, poiché esso rimane compresso tra i propri limiti e la natura stessa dell’individuo che v’interagisce.

Tutta l’opera è un capolavoro della letteratura francese.

Per Marcel Proust il recupero del passato e la creazione artistica coincidono, si combaciano, fin quasi a colmare la brevità illusoria del tempo, forse anche a recuperarlo, a conservarne aromi e freschezza dentro l’anima che è tutta attraversata dal desiderio della giovinezza fuggitiva, ritenendola parabola stessa della vita, in un percorso di relatività spirituale, ancorché biologico e naturale della specie.

 

Milano, giugno 2013                                   Ninnj Di Stefano Busà

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24 gennaio 2014 5 24 /01 /gennaio /2014 11:19

 di Ninnj Di Stefano Busà

 

Intervenire criticamente su un saggio, a sua volta,  -critico- è quel che si può dire il clou in letteratura.

Ma quando questo disquisire giunge da un esegeta accreditato come Sandro Angelucci, il fatto incuriosisce e si va a leggere con più pertinente attenzione l’autore segnalato.  Non fosse altro che perché conosco da molti anni Rescigno, sarei stata per prima curiosa di apprendere una più profonda esegesi su questo autore: schivo, coerente al suo episodio letterario fin dall’esordio, interessato alle varie tappe della vita, profondamente naturale e fruibile in ogni suo testo poetico, che va a toccare avvenimenti, esperienze plurime dell’uomo, soprattutto, il suo dolore e il suo distacco dalla realtà, con la morte. Gli ultimi due libri si fermano su quella tematica o almeno la sfiorano con quell’ineluttabilità che è propria delle persone autentiche, nel voler valutare il passaggio nell’aldi là con somma chiarezza e senza dileggio. Vi è da sempre nel poeta Rescigno il sacro fuoco della poesia.

La parola del poeta è fede e religio di una verità ultima che pone in rilievo la vita con i suoi molteplici aspetti peculiari, con la sua meditazione e speranza, con suo pianto e le sue gioie.

Sempre, l’autore ha trattato il tema lirico con grande rispetto per i valori dell’uomo, e vista dal lato del sublime, la sua ispirazione rigorosamente attinge alla visione cosmica, ad un più dettagliato e lucido panorama del mondo, che è mistero e religioso stupore, amore e morte, amalgama potente e lungimirante di una contemplazione che si fa viaggio e passaggio dall’uno all’altro, da un aspetto all’altro, diventando memoria e ricordo come categorie ultime di un umanesimo che si ricompatta col mondo, con le sue varianti prodromiche e le sue esperienze temporali.

Una ricerca lunga quanto la vita, quella di Gianni Rescigno, che da grande affabulatore è riuscito a dare l’interpretazione del suo lirismo in maniera esaustiva, sia idealmente che concretamente: i suoi superbi paesaggi terragni, le sue vigne, i suoi ulivi, la natura selvaggia e imponderabile di un Sud fatto a immagine di poesia, tra luci e ombra, tra passaggi interiori e suggestioni, tra emozioni e scoperte, tra lusinghe e dolore; si snoda la vita, e il poeta Rescigno la percorre in un fremito che tutta la raccoglie.

Il suo impianto linguistico è moderno, contemporaneo, mai sperimentale, perché sa cogliere un panismo, un misticismo lirico che non sono di tutti. L’ermeneutica su cui si colloca l’esegesi di Sandro Angelucci è ricchissima di spunti che serviranno a incorniciare la figura di questo poeta entro l’ambito di una scrittura poliedrica e versatile, senza nulla togliere al viaggio reale della sua esistenza, al quale giustamente il Critico riserva tutta l’attenzione.

É scevro da funambolismi ariosi e descrittivi questo saggio, va dritto al punto cruciale che è la personalità del poeta Rescigno: le sue carrellate di versi, tutti potenti, tutti immersi in un’armosfera lirica da lunga e pesante permanenza in poesia.

Il critico ne ha saputo individuare linee e forme, categorie e passaggi cruciali, i flussi e i riflussi che ne hanno regolato le stagioni, i gusti, le sollecitazioni amorose, i dubbi, le speranze.

A indicarne la camaleontica tranche de vie non potrebbero essere che le stesse parole del poeta: “forse è l’anima nostra in continua prova/ per raggiungere l’infinito (da: Nessuno può restare) Genesi, 2013. Quest’ultima è una raccolta lucida e ben delineata, una sintesi oserei definirla di quel percorso che Rescigno compie a rembours, per abbracciare l’intero percorso e donarsi infine nelle braccia dell’Ultimo Morfeo, come un guerriero stanco.

L’esegesi di Angelucci è di quelle che non si fanno attendere, ne delimita gli assunti, ne ricrea le atmosfere, ne illumina i contorni con un’aderenza alla realtà tra le più straordinarie. E lì, infatti che si sentono l’abilità e la preparazione di un critico, quando questi ne avverte i segni, le interferenze, le angolazioni, i traguardi, le impalpabili sottigliezze, gl’indicibili rifrangenti dell’umano percorso che si fa carne e sangue della vita, ne assume i contorni, ne evidenzia i dati più eclatanti, per giungere all’ultimo stadio che è il più verosimile – come la nascita, infatti, anche la morte è un barlume di vita, anche se l’una dà, l’altra toglie, ma è l’inafferrabile, il mistero di ogni umanità ad attaccarsi al sogno, alla rappresentazione scrittoria di un progetto che si trasforma in poesia, come in arte. Un processo salvifico, un procedimento di gran lunga più misterioso e potente della stessa nascita. Angelucci sembra dire nel suo saggio: se un poeta dopo aver percorso il suo cammino, aver ostinatamente scavato per trovare la peculiarità del linguaggio, la chiave più opportuna offertagli dalla vita, ha saputo parlare con le sembianze di un uomo qualunque “umile” eppure elevato, dal perentorio bisogno del –dire- allora gli si può riconoscere l’immortalità dello spirito, la sua lunga permanenza nei territori dell’anima, che ne testimoni il grande privilegio della Poesia. Mi pare che un critico non potesse dare miglior giudizio di questo. Spero di averlo interpretato bene!

 

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12 gennaio 2014 7 12 /01 /gennaio /2014 09:51
Eros e la nudità di Ninnj Di Stefano Busà, Ed Tracce-Pescara, 2013
 
(a cura di Floriano Romboli)
 
L'opera in oggetto mi ha confermato nell’idea della continuità e dell’alto grado di coerenza che caratterizzano la tua ricerca poetica.
Ho pensato all’incipit di una lirica compresa nella raccolta pressoché coeva La distanza è sempre la stessa (Catanzaro, Ursini, maggio 2013), ove si legge: “Entriamo,/nel solo ineludibile linguaggio:/ quello del corpo, quando l’anima è affranta…”(vv. 1-3); è qui la radice – le due sillogi accolgono d’altronde due medesime poesie, di cui solo una lievemente modificata – dell’attenzione appassionata e approfondita alla dimensione corporea, carnale (“Col sudore e le carezze del corpo/contenderemo alla vita la sua mortale vanità”, Inganneremo la dolcezza del canto,vv.3-4) della tensione erotica, la quale a partire dalla fisicità sensualistico-naturale, da una nudità che è innanzitutto libertà e schiettezza afferma la propria rilevanza assoluta di fondamentale energia vitale.
L’autrice coglie con perspicacia ed esprime felicemente il duplice “movimento” insito nell’esperienza di Eros, che è inizialmente auto-espansione, sollecitazione a uscire da sé, condizione di smarrimento (“Magico ciò che osammo:/ dentro la vertigine accecante/ di azzurre armonie, estranei al mondo…”,L’allerta è per quel viluppo d’ali, vv.7-8), e in seguito ritorno consapevole, accrescimento interiore che può rimotivare l’ordine delle cose e assicurare un vero significato all’esistenza:
 
Solo un guizzo di luce nel tuo sguardo
un lampo in cui vi ammutolisci
il vento di soavi piaceri, di stordimenti.
Qui è la spola, qui l’arcolaio per tessere la tela,
dalla nostra carne sboccerà l’aurora.
 
Mi pare che tutto il libro risulti percorso da un moto diadico, da un desiderio di sostare sull’ “orlo dell’abisso/ in cui morire e poi risuscitare”( Mentono ora le tue notti, vv.8-9, corsivi miei), giacché il valore si precisa contrastivamente nell’opposizione al suo contrario: l’unione amorosa alla solitudine, la luce al buio, il calore al freddo, la primavera all’inverno, la gioia al dolore; mi limito in proposito a una sola citazione:
 
Se scrivo è per amore, per comporre
le minime radici (…)
E’ questa fedeltà ai luoghi, ai margini sottili
delle cose che ci affina il fiuto alla magìa,
e poi lo strappo dalle tue braccia,
migrare altrove, nel germinare mesto
del dolore o della perdita ( Assente è la parola che sorregge il mondo, vv.3 e 7-11, corsivo nel testo)
 
In altra occasione mi è capitato di sottolineare la centralità della figura dell’antitesi nella strategia formale-compositiva della Di Stefano Busà, e anche in questi testi le antitesi sono molto frequenti, indizio di un’elaborazione problematica che non conosce soluzioni definitive, sintesi pacificanti.
Nei versi emerge talvolta l’aspirazione a una condizione più alta, a un altrove, a un oltre ( “Una canzone senza tempo, il punto esatto/ del nostro tracimare oltre il guado,/esser(ci) dono, riparo dal naufragio,/oltre noi stessi ”, Vorrei tra il divenire e il sonno, vv.12-15, corsivo nel testo), che però rimane indeterminato oppure si risolve nell’idea-valore dell’ “istante perfetto”, nella situazione manifestamente ossimorica della “breve eternità”, dell’esperienza momentanea e nondimeno indefettibile:
 
Siamo fragili ed eterni
nell’amplesso impudico della passione,
nell’eresia ardente dell’oblìo
che scioglie i silenzi, come fragranza di rosa ( Strazia l’anima questa malinconia, vv.9-12)
 
Attraversare il tempo ordinario forti di una grande carica intellettuale-morale, fecondandone l’impersonale opacità con intensi, creativi apporti soggettivi, significa assicurare ad esso tratti incomparabili, realizzare quella plenitudo vitae che un pensatore del primo Medioevo cristiano come Severino Boezio ne La consolazione della filosofia riteneva impossibile stabilmente nel tempo storico e tuttavia in certi momenti avvertibile pure in questo per emulazione dell’ideale della vita superiore. Più laicamente e modernamente per Ninnj Di Stefano Busà l’amore e la poesia possono conferire all’esistenza qualità e valore indimenticabili, prolungandone la durata oltre i limiti temporali.
 
Floriano Romboli
 
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22 dicembre 2013 7 22 /12 /dicembre /2013 15:14

di Annalisa Macchia

 

 

 

 

 

Antologia, L’evoluzione delle forme poetiche - La migliore produzione dell’ultimo ventennio (1990-2012), a cura di Ninnj Di Stefano Busà e Antonio Spagnuolo, 2013, Kairòs Edizioni, pp.779, Euro 20.00

 

L’evidente crisi della poesia di oggi, sofferente, spesso imbarbarita, continuamente attaccata da invasioni sia nella stampa sia in rete, proliferate a dismisura negli ultimi anni senza alcun serio controllo di critica, produce un effetto di spaesamento o di rassegnata accettazione da parte di un pubblico non sufficientemente preparato.

Siano dunque benvenuti strumenti preziosi come questa ponderosa Antologia, a cura di Ninnj Di Stefano Busà e di Antonio Spagnuolo, che, raccogliendo un’ampia scelta di autori contemporanei le cui energie creative si sono concretizzate in linguaggi poetici, si pone davanti al lettore come “consuntivo”, “archivio storico” realizzato soprattutto per le scuole, testo di riferimento e di consultazione intorno a quanto si produce oggi in Italia.

Un progetto indubbiamente ambizioso, teso a verificare stili ed evoluzioni delle forme poetiche dell’ultimo ventennio, un coraggioso tentativo di offrire a chi legge l’onesta, policroma visione dell’ultimo tratto di percorso della nostra tradizione poetica. Operazione, tuttavia, consapevole dei rischi inerenti ogni tentativo di storicizzare l’odierna produzione e, per questo motivo, condotta principalmente come indicazione, invito a riflettere.

Attraverso l’estrema varietà di linguaggio e di ricerca dei 287 autori presenti, tra i più rappresentativi del nostro attuale panorama poetico e dove spiccano voci particolarmente alte, nella totale libertà delle scelte culturali e linguistiche qui messe a confronto, è impossibile non rendersi conto come la Poesia finisca per imporsi col suo universale linguaggio carico di ogni vibrazione.

Ci auguriamo, insieme ai curatori, che tale opera possa davvero avere la funzione, in un prossimo futuro, di anello di ricongiungimento tra Poesia e Scuola, tanto scarsamente e, non di rado, falsamente in contatto in questi ultimi anni. In un mondo dove tutto sembra tramare per distogliere l’attenzione dalla Poesia, riuscire a portarla tra i giovani, far loro capire che essa può appartenere a chiunque la ami, sarebbe un incomparabile dono per tutta quanta la società.

 Conclude, in quarta di copertina, Ninnj Di Stefano Busà: “[…] Scopo di quest’opera è di affiancare e stimolare ai vari livelli una più ampia conoscenza dei fenomeni linguistici sollecitando la voglia di aprirsi al ‘sogno’ che, sempre, da un’epoca all’altra, rimane immutato e risulta vincolato solo al  desiderio di proporsi alla Poesia, come alla palingenesi di nuove e sempre immortali forme d’arte e di scrittura”. (Annalisa Macchia)

 

 

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26 ottobre 2013 6 26 /10 /ottobre /2013 11:01

a cura di Franco Campegiani

 Sono le orbite che ci ruotano intorno o siamo noi che giriamo intorno a noi stessi?”. Così scrive Sandro Angelucci in questa superba recensione a “Ellittiche stelle” di Ninnj Di Stefano Busà. E risponde: “A me piace optare per la seconda ipotesi”. Ebbene, io condivido questa preferenza, in quanto l’orbita dell’angoscia e della pace, di cui in fondo parla la poetessa, non è altro che il percorso metafisico-esistenziale dell’uomo stesso, il viaggio compiuto dalle proprie sorgenti universali al golfo che lo ospita temporaneamente. Un viaggio di andata e ritorno, dove la gioia e il dolore, il bene ed il male, non si separano tra di loro, ma sono facce della stessa medaglia, tappe obbligate della medesima orbita, dello stesso percorso. E’ morendo sulla Croce che si aprono le porte del Paradiso. Una visione, questa, non certamente nirvanica (schopenhaueriana) della vita, come forse potrebbe sembrare, in quanto il dolore, qui, si supera attraversandolo, vivendolo, e non con pratiche più o meno artificiali che tendono ad estirparlo, allontanandolo da noi. Ho letto anch’io “Ellittiche stelle” e sono rimasto colpito dall’andamento musicale del verso, dolcissimo e amaro nello stesso tempo. È l’onda ventosa dell’incalzante andare della vita, che procede dall’alba al tramonto, per tornare perennemente all’alba e al tramonto, giacché non c’è affermazione senza negazione, e viceversa. E se è vero che “il sogno delle favole-bambine / più non cresce tra le nostre braccia, / … / Non è tempo di prodigi / che inondano di luce la città dei vinti”, è altresì certo che noi “inventeremo un nuovo giorno, / un’alba di rinnovato stupore / al sole d’innocenza. / La luce è incorruttibile stasera, / inventa nuove favole, / sgrana rosari / e fiori abbandonati”.

Franco Campegiani 

 

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